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Un dissidio nato a metà del 1600 ancora oggi accende gli animi dei discendenti delle due città contendenti, Brindisi e Lecce, sulla colonna che domina tra i vari monumenti nella piazza-simbolo della città del barocco.

 

 

 

Affievolitosi nei secoli, risolto giuridicamente poco dopo lo scoppio dell'aspra contesa, tutt'ora si dibatte e vi è grande indecisione se il possesso del monumento fosse avvenuto per donazione da parte dei brindisini oppure di un vero e proprio “ratto” ad opera dei leccesi. Alta circa trenta metri svetta al centro di Piazza Sant'Oronzo, da tutti osservata e divenuta punto di riferimento per quanti visitano la città, ha una storia poco nota e da molti trascurata perché impolverata dalle ragnatele del tempo.

Nel 1657 una nuova ondata di peste annebbia gran parte della penisola italica e non lascia scampo neanche alla città aurea del mezzogiorno, Napoli, che colta alla sprovvista portò le autorità a nascondere il contagio e a negarne l'esistenza. Fu facile comprendere sin dagli albori dell'epidemia che avrebbe colpito tutto il Regno, e così avvenne; eppure, sorte differente spettò alla Terra d'Otranto. La voce si sparse assai velocemente e la grazia fu attribuita a Oronzo, originario di Rudiae, giunto in sogno nell'atto di presidiare, assieme ai martiri, le porte di Lecce, ingresso principale della Terra d'Otranto.

I Leccesi benedirono il santo e divulgarono il prodigio in tutti gli angoli del Regno, ma la notizia toccò in particolar modo la religiosità dei Brindisini; tanto che le autorità decisero di realizzare un ex voto per ringraziare Oronzo della sua protezione, al fine di donarlo alla città nella quale, il 26 agosto del 68 dC, si era ricongiunto a Dio nella pace eterna. Per il materiale vi fu ampio dibattito tra gli influenti della città dal porto a forma di corna di cervo, ma alla fine, per far cosa gradita al santo, si decise di utilizzare il fusto di una colonna romana, di cipollino africano, che segnava il termine dell'antica Via Appia; l'architetto designato per l'opera fu Giuseppe Zimbalo.

Quest'ultimo decise di utilizzare il capitello originale della colonna e, di propria iniziativa, realizzò una base in pietra animata da balaustre. Fu chiaro sin dal principio, che dovesse regnare incontrastata la statua di quello che, in seguito al miracolo, divenne il santo patrono della città di Lecce, con abiti vescovili e nell'atto di benedire.

I lavori, iniziati nel 1660, con grande trepidazione e devozione, furono interrotti per la mancanza di fondi, per poi terminare l'opera nel 1686. Una volta realizzato il voto, la mela della discordia fu gettata, perché parte delle nuove autorità, riconosciuta la grandezza del lavoro, vollero tenere per sé la colonna lasciando delusa la popolazione leccese. Il clamore fu tanto grande che la questione giunse al Vicerè del Regno, il quale, sentite le ragioni dei due contendenti, dichiarò legittimo il possesso solo per la città di Lecce. Per evitare scontri la colonna fu prelevata nella notte in gran segreto e consegnata ai suoi legittimi proprietari; da qui l'accusa di averla trafugata. I tempi passano, i protagonisti della storia non sono imperituri, ma le loro azioni, le vicende che li hanno resi partecipi saranno immortali grazie proprio al vociare della gente e ai dubbi che spingeranno i posteri alla ricerca della verità.

 

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