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I tempi che stiamo vivendo vedono alcuni gruppi di credenti accanirsi contro il magistero di Papa Francesco. Essi non si limitano a una critica rispettosa, ma si spingono fino a delegittimare il Pontefice con accuse grottesche e polemiche insistenti, spingendosi a chiederne perfino le dimissioni.

Non è che in passato altri papi non abbiano incontrato opposizione e resistenza. E tuttavia in tempi di dominio dei social, come gli attuali, posizioni integraliste e conservatrici di esigue minoranze assumono maggiore enfasi ed amplificazione, fino a sovrapporsi a quelle forze politiche nazionalistiche e xenofobe che fanno dei simboli religiosi un vessillo della loro lotta politica.    

Papa Francesco è “un papa che non è posto lì come roccia che tiene il campo, ma come pastore che spinge a nuovi pascoli” (Luigi Accattoli), perciò il suo è un magistero che dischiude nuovi orizzonti, che spinge a dire la fede non in contrapposizione alla modernità, posizione quest’ultima che ha finito per trasformare la fede in mera ideologia, ma in dialogo con la modernità, secondo il grande insegnamento di Paolo VI.

Questo rovesciamento di stile porta da affermare il primato del Vangelo sulla dottrina, il primato della misericordia sulla legge, il primato del kerigma (l’essenziale dell’annuncio cristiano) sui valori non negoziabili, il primato del farsi prossimo sul formalismo della religione. La “Chiesa in uscita” e la “Chiesa ospedale da campo” sono le due icone sulle quali Francesco fonda la modalità nuova di dire la fede. Esse raccontano una Chiesa che non è gelosa della sua novità, non sotterra il tesoro prezioso ricevuto in dono, non crea muri di difesa e non muove “battaglie di civiltà”, non si perde in imprese volte a rifondare una “nuova cristianità perduta”, ma assume il rischio di sporcarsi le mani. Non sbatte in faccia la propria verità, ma la afferma attraverso la carità.

Queste due icone raccontano la teologia degli scartati, la teologia della misericordia, la teologia della povertà, la teologia del kerigma. Sono le teologie intorno alle quali Francesco riscrive il vocabolario dell’annuncio cristiano. Teologie nuove? No, teologie antiche, direbbe don Giuseppe Dossetti.

E tuttavia a molti appaiono rivoluzionarie, addirittura eterodosse. Ai perbenisti, agli adoratori algidi della dottrina, ai passatisti di “dio, patria e famiglia”, queste teologie appaiono troppo “di parte”. Al punto che si giunge a contrapporre Francesco a Benedetto XVI, considerato il vero custode dell’ortodossia.

Il vero problema, però, non sono questi “pasdaran” cattolici impegnati a contrastare una Chiesa semper refermanda. I farisei, coloro cioè che si considerano i veri depositari della unica interpretazione della Legge e della Tradizione, sono una costante nella storia dei credenti nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Tra questi ultimi e i tantissimi cattolici che quotidianamente animano le attività pastorali e caritative delle parrocchie, vi è, in mezzo, una larga fetta di popolo che si dice cattolico ma che sembra essere refrattario all’insegnamento della Chiesa e del Papa, soprattutto in tema di accoglienza dei migranti, e che in occasione delle ultime elezioni politiche ha sostenuto partiti come la Lega e il M5S. È quel popolo che aderisce al dato cristiano per consuetudine, perché si è fatto sempre così. Quel popolo che andrà pure a messa la domenica per accompagnare i figli al catechismo ma alla fine sarà un semplice fruitore di servizi religiosi, costretto al più a subire prediche sconcluse perché fatte di parole astruse, incomprensibili agli stessi “addetti ai lavori”.

Questo popolo, di fatto, sta consumando, e non per colpa di Francesco come qualcuno afferma, ma già da qualche decennio, un vero e proprio “scisma sommerso”, per via del divario profondo tra l’etica istituzionale della Chiesa e le singole coscienze. Nessuna meraviglia, allora, se questo popolo, poco o per niente educato ad una fede adulta, stenta a riconoscersi nel messaggio di Francesco. Dobbiamo riconoscere, senza infingimenti e giri di parole, che la causa fondamentale di questo scisma è il clericalismo di molti pastori e laici. È il papa stesso a dircelo quando rivolto ai gesuiti lituani afferma: “…quello che oggi bisogna fare è accompagnare la Chiesa in un profondo rinnovamento spirituale. Io credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa. Ho detto tante volte che una perversione della Chiesa oggi è il clericalismo. Ma 50 anni fa lo aveva detto chiaramente il Concilio Vaticano II: la Chiesa è il popolo di Dio. (Lumen gentium n.12). Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono 100 anni. Siamo a metà strada. Dunque, se volete aiutarmi, agite in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa.”

Ecco, per aiutare Francesco e ritrovare l’essenziale della fede dovremmo ripartire dalla scuola della Parola e dalla scuola del Concilio. Dovremmo ripartire dalla lettera a Diogneto (secondo secolo d.c.): “i cristiani abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno. Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure portano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è per loro terra straniera. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi”.

 Tutto il resto è inutile affanno.

 

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