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Quali scelte sollecita il tragico epilogo della vicenda di ‘Mario’? È veramente necessaria una legge che disciplini il suicidio assistito, e quali sono i margini di operatività del Parlamento dopo la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale?

 

 

 

Partiamo da quest’ultima. Essa non ha cancellato la norma del codice penale che punisce chi aiuta altri a suicidarsi; ha stabilito per questi casi la non punibilità purché sussistano quattro condizioni, che il giudice deve verificare. E cioè che il paziente: a. “sia affetto da una patologia irreversibile, b. (che questa sia) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili”, c. che esprima un valido consenso alla propria uccisione, d. che vi sia stato il previo ricorso alle cure palliative, senza che abbia sortito effetto.

Quella sentenza è assai singolare, perché attraversata dalla preoccupazione di risolvere il caso concreto da cui era sorta la questione di legittimità, cioè il giudizio a carico dell’on. Cappato, quasi modellata su tale specifica vicenda processuale. Certamente le sue maglie non vanno ulteriormente dilatate, come è avvenuto per ‘Mario’: se riprendiamo il parere rilasciato su di lui dal Comitato etico regionale delle Marche il 9 novembre 2021, a sua volta sollecitato dal Tribunale di Ancona, a proposito del requisito della sofferenza intollerabile il Comitato riferiva di un ‘elemento soggettivo di difficile interpretazione’, di difficoltà nel ‘rilevare lo stato di non ulteriore sopportabilità di una sofferenza psichica’, e di ‘indisponibilità del soggetto ad accedere ad una terapia antidolorifica integrativa’. Dunque, la morte di ‘Mario’ è stata provocata nonostante l’assenza di cure palliative, e benché fosse dubbia la intollerabilità della sofferenza, comunque di natura in prevalenza psicologica: quindi nel difetto di almeno uno, se non due dei requisiti indicati dalla Consulta.

Che cosa fare perché non si ripetano simili epiloghi? Approvare in via definitiva al Senato il c.d. ddl Bazoli, dal nome del relatore alla Camera, che introduce a pieno titolo nel nostro ordinamento l’eutanasia, pur se nominandola ‘morte volontaria medicalmente assistita’, e quindi dare a chi è affetto da gravi patologie, o all’anziano non autosufficiente, o al disabile grave, la prospettiva principale di una fine procurata?

La Corte costituzionale non incita a questo. Un Governo e un Parlamento che intendessero dare seguito coerente alla sentenza 242 provvederebbero finalmente a finanziare quella legge sulle cure palliative che, approvata all’unanimità nel 2010, ha finora incontrato limitatissima attuazione per carenza di adeguata copertura. Quando la Consulta indica la terapia del dolore quale passaggio non facoltativo, bensì pregiudiziale, per il trattamento di fine vita, segue una logica: se chiedo di farmi morire perché non sopporto la sofferenza, circoscrivere il dolore, come oggi è in concreto possibile, riduce al tempo stesso la disperazione, e non mi fa insistere nel proposito di morte.

Nell’affiancamento di chi soffre non c’è solo questo: se per ‘Mario’, e per tanti come lui, la sofferenza è anzitutto psichica, è incivile non creare le condizioni per vincere la solitudine del paziente. Un paio d’anni fa, in coincidenza con le prime fasi della pandemia, furono proposte delle norme in favore dei c.d. informal caregiver: aiuti materiali verso i parenti, o comunque persone prossime a chi soffre, che pagano la loro dedizione perdendo il posto di lavoro, o subendo limitazioni nell’orario, e quindi nella remunerazione. Il reddito di cittadinanza è ancora in piedi, con i suoi sprechi e con danni permanenti al mercato del lavoro, e invece del sostegno ai caregiver non parla più nessuno.

Sono pochissimi gli ospedali che hanno attivato una assistenza domiciliare efficace e dignitosa per evitare che gli ammalati delle patologie più serie vengano abbandonati, sopratutto quando è evidente che la terapia non funziona più. Perché non lavorare per moltiplicare esperienze che - peraltro con evidenti economie - lasciano il paziente nella propria abitazione, e al tempo stesso non lo privano dei presidi sanitari di cui necessita?

Per finire. Il Parlamento non è il dattilografo che scrive sotto dettatura della Corte costituzionale: ne rispetta le decisioni, è evidente, ma non è tenuto a farlo alla lettera. Tre anni fa, affrontando il ‘caso Cappato’, la Consulta ha da un lato dettato le regole, poi puntualmente seguite dai Giudici del merito, per risolvere quella specifica vicenda, dall’altro ha sancito che l’art. 580 del codice penale, nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio, così come è non va bene. Camera e Senato potrebbero ben replicare modificando quell’articolo, per es. prevedendo una pena attenuata, tale da poter essere condizionalmente sospesa, per chi agevola la morte del parente stretto che assiste da anni in una condizione disperante – non comparabile con quella del titolare di una ‘clinica exit’, che vive della morte procurata ad altri -, ma senza far venire meno la qualifica di illecita per la condotta di togliere la vita a una persona, qualunque sia il suo stato. E al tempo stesso spingere il Governo a finanziare cure del dolore e affiancamenti efficaci per chi soffre. Vi una pdl, primo firmatario l’on Pagano, che va in questa direzione.

Sarebbe una risposta di civiltà, e non di morte, a tante terribili sofferenze.

*Da La Verità, 19 giugno 2022

 

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