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Questa sera, nella splendida cattedrale, il nostro vescovo Michele Seccia, ti ordinerà sacerdote e noi presbiterio e fedeli ti accoglieremo con gioia.

 

 

La tua ordinazione, caro don Alessio, è come un raggio luminoso nel grigiore della pandemia di cui il mondo intero è succube ormai da mesi. In questo tempo di sofferenza e di quasi paralisi sociale, Dio visita il nostro presbiterio e la nostra diocesi donandoci in te un nuovo sacerdote, una bella promessa. In questa occasione viene spontaneo abbozzare qualche pensiero non per idealizzare il tuo sacerdozio ma per contestualizzarlo nella comunità e soprattutto nel presbiterio.

Da molti anni ormai sono convinto che noi preti dobbiamo mettere da parte l’idea di essere una categoria “speciale” in forza del sacramento dell’ordine sacro ricevuto.

René Voillome, superiore generale dei piccoli fratelli del vangelo, in un suo famoso libro degli anni ’70, dice: “non è il ministero sacerdotale a determinare il rapporto con gli altri, ma è il rapporto con gli altri che determina il ministero sacerdotale”. Può sembrare un’affermazione di matrice sociologica più che teologica, ma contiene una profonda verità: il ministero sacerdotale nasce  e si svolge tutto nell’ambito delle relazioni umane, non fuori né al di sopra di esse.

Gli stessi consigli evangelici, noi presbiteri, non siamo chiamati a viverli per se stessi ma in funzione del nostro ministero, in funzione della comunità. Cerco di essere più chiaro: castità, obbedienza e povertà  diventano per noi un modo di vivere per poter annunciare il Vangelo a tutti senza arrossire.  In altri termini, Gesù chiede a noi preti attraverso Pietro (mi ami tu più di costoro? Pasci i miei agnelli…) di amarlo in modo esclusivo prendendoci cura delle sue pecorelle. Ecco la forma d’amore più grande verso il Signore che il prete deve perseguire in tutta la sua vita.

La cura degli altri, come forma di amore più grande comporta che il prete è di per sé uomo di comunione e di fraternità, promuove relazioni di comunione e di fraternità. Comunione e fraternità non sono una cornice ma elementi costitutivi del suo ministero, che il presbitero è chiamato a vivere anzitutto con i suoi confratelli.

Nella mente di don Tonino Bello, il presbiterio è la comunità modello di comunione, vissuta nel mistero trinitario. Riprendendo l’immagine della lavanda dei piedi e della Chiesa del grembiule diceva: “Brocca, catino e asciugatoio… vanno posti all’interno del presbiterio, perché Gesù ha detto ai suoi apostoli: dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri (Gv 13,14). Nell’omelia crismale del 1983 ai suoi preti diceva: “Se noi non esprimiamo in modo collegiale e in profonda comunione reciproca il nostro servizio ai fratelli, noi impediamo al mondo di tenere gli occhi fissi su Gesù”.

Allora, caro Alessio, benvenuto fra noi. Non siamo un presbiterio perfetto; troverai in mezzo a noi tanti difetti, fragilità, ma anche tanta generosità, voglia di lavorare e lavorare bene, soprattutto in questo tempo di pandemia, desiderio di convertire la nostra prassi pastorale orientandola sull’essenziale, sulla “cultura della cura” come vuole Papa Francesco.

                                                                                                                                                                                                                                 *vicario generale

 

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