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Celebrare il proprio giubileo del cinquantesimo di ordinazione sacerdotale in un clima di isolamento sociale e di liturgia priva di partecipazione fisica dei fedeli, a motivo di un’inedita emergenza sanitaria, non è per il nostro don Giancarlo Polito il massimo dei suoi desideri, pur essendo un sacerdote piuttosto riservato e amante del silenzio.

 

 

E noi presbiteri che insieme con lui siamo al servizio della Chiesa di Lecce, facciamo nostra questa sofferenza, ma non rinunciamo a condividere con lui una grande gioia e una profonda riconoscenza per l’incommensurabile dono del sacerdozio, sentimenti che non possono essere condizionati da una dimensione esterna e organizzativa ma che si manifestano in tutta la loro intensa vitalità nella preghiera.

Per tutta la settimana che precede la data del giubileo la nostra preghiera di lode e di ringraziamento sarà per don Giancarlo e per il dono del sacerdozio ministeriale. L’intuizione e la decisione del nostro vescovo ha così colmato e superato il vuoto di fedeli che in occasioni come queste si colora di maggiore tristezza.

Questo essere riportati bruscamente a una vita essenziale, quasi di sopravvivenza, anche nella dimensione cristiana, ci fa anche vedere il sacerdozio nella sua radice, vale a dire, nella sua dimensione genetica, che mi sembra essere stata descritta da Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: “Pertanto i presbiteri sono chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza in mezzo al gregge loro affidato” (n. 15). Quando Gesù chiede tre volte a Pietro “Mi hai tu più di costoro?”, gli chiedeva di essere sua trasparenza. La triplice risposta di Pietro: “Ti amo”, è la sofferta ma convinta risposta di voler essere trasparenza dell’amore di Cristo.

A Pietro come a ciascuno di noi presbiteri, Gesù non chiede di amare questa o quella forma di pastorale, ma di pascere le “sue” pecore. Il prendersi cura di coloro che ci sono stati affidati, là dove la cura è il suo amore che si manifesta attraverso il nostro ministero. Il pascere le pecore con l’amore di Cristo è la radice del nostro sacerdozio, che anche in tempo di pandemia, di distanziamento fisico si può, come si è di fatto manifestato, amore, cura degli altri e che la gente ha percepito molto bene.

I consigli evangelici, povertà, castità, obbedienza, che i consacrati sono chiamati a vivere come perfezione evangelica, per noi presbiteri sono mezzi richiesti dal ministero, sono in funzione del ministero, in particolare contribuiscono ad alimentare il disinteresse per noi stessi e l’interesse per Cristo.

C’è un bel testo di Agostino dove l’amore disinteressato del pastore nei confronti dei fedeli costituisce una particolare forma di castità:

“È la castità della sposa che ama lo sposo, Dio, per se stesso, non in ordine ad altro.

L’apostolo Paolo dice che alcuni annunciano il Vangelo mossi da carità, altri ne fanno un pretesto.

Sono quelli di cui dice: ‘Annunziano il Vangelo con intenzione non retta’.

Retto è l’oggetto, ma essi non sono retti. Perché non è retto?
Perché nella Chiesa cerca altro, non cerca Dio.

Se cercasse Dio, sarebbe casto, perché l’anima ha Dio come legittimo sposo.

Chiunque cerca da Dio altro fuorché
Dio, non cerca Dio castamente. Vedete, fratelli: se una moglie ama suo marito perché
è ricco, non è casta, giacché non ama il marito, ma l’oro del marito (…).

Pertanto coloro che annunziano Dio amando Dio… pascono le pecore e non sono mercenari.
Tale è la castità che esigeva dall’anima il Signore nostro Gesù Cristo quando diceva a Pietro: ‘Pietro mi ami?’

Che vuol dire: ‘Mi ami?’ Sei casto? Il tuo cuore non è adultero?

Nella Chiesa non cerchi le cose tue, ma le mie? Se dunque sei così, e mi ami, ‘pasci le mie pecore’.

Allora non sarai mercenario, ma pastore”(Sermo 137,9-10).

                                                                                                                                                                                                           *vicario generale

 

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