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Rispondo volentieri alla richiesta di scrivere un pubblico augurio al fratello Michele Seccia, arcivescovo di Lecce, che celebrerà nei prossimi giorni il giubileo della sua ordinazione episcopale.

 

 

L’anniversario dell’ordinazione, Sant’Agostino lo chiamava natalis episcopi, giorno natalizio del vescovo. Intendeva, dunque, il ministero episcopale come una «vita nuova», un ricominciamento. Rispetto al naturale compleanno c’è, però, una diversità: questo riguarda immediatamente una vita tutta personale ed è comprensibile commemorarlo con ricordi soprattutto della propria storia individuale; il natalis episcopi, al contrario, riguarda sempre una Chiesa. La Chiesa per la quale si è vescovi. È, d’altra parte, come per l’anniversario del matrimonio. Non lo si celebra da soli, ma con il coniuge, la coniuge. Coniungo vos, dice il ministro del rito e questo coniugio vale per sempre. Analogamente accade per un vescovo: l’anniversario della sua ordinazione ha certamente qualcosa di intimo, inenarrabile, di cui si osa parlare soltanto con Dio. Eppure, se per ciascuno vale il bel titolo della nota poesia di John Donne: «Nessun uomo è un’isola», esso vale in modo speciale per un vescovo.

È noto che un monaco trappista - Thomas Merton - scelse per un suo libro esattamente quel titolo. All’epoca in cui Michele ed io eravamo seminaristi era molto letto. In quelle pagine si parla anche della vocazione al sacerdozio: «magnifica e tremenda», la chiama Th. Merton. Aggettivo, quest’ultimo, che potrebbe spaventare. «Un uomo, debole come gli altri, come gli altri imperfetto, forse meno dotato di molti fra quelli ai quali viene mandato, forse anche meno incline alla virtù di alcuni di loro, si trova preso, senza possibilità di sfuggire, tra l’infinita misericordia di Cristo e l’orrore quasi infinito del peccato dell’uomo» (cap. VIII, 11). In quel suo libro Merton non tratta della vocazione all’episcopato, semplicemente perché quella non è una vocazione del singolo, ma della Chiesa! Pensare diversamente è un’aberrazione. Per la Chiesa sono tutte le vocazioni, ma della Chiesa è solo quella all’episcopato. Ogni sacramento è richiesto dal singolo; l’episcopato è domandato dalla Chiesa. «La Santa Chiesa di… chiede che sia ordinato vescovo»! Tuttavia, anche per il vescovo continua a valere ciò che scriveva Th. Merton: «Deve dar battaglia sul terreno scelto non da lui, ma da Cristo, e quel terreno è la collina del Calvario e la Croce».

Qualcuno potrebbe replicarmi: ma perché scrivere queste cose per un giorno così bello e così significativo per il nostro vescovo? Ho cominciato con un discorso di Sant’Agostino nel suo dies natalis; il Discorso 399 della NBA. Quello, in verità, non fu proprio un «panegirico». Ecco alcune battute finali: «So che alcuni diranno: Che ci ha voluto dire?». Forse ricordare che l’essere vescovo non è starsene felici su di un trono episcopale!

In un altro suo discorso (il 340/A della collezione NBA: per l’ordinazione di un vescovo) Agostino ironizza su coloro che vanno e vengono dal vescovo: «Hai veduto il vescovo? Hai salutato il vescovo? Da dove vieni? Dal vescovo. Dove vai? Dal vescovo…». Poi conclude: «apprendiamo da Cristo, il solo Maestro che in tanto ha la cattedra in cielo, in quanto prima sulla terra ebbe a cattedra la croce. Egli insegnò la via dell’umiltà: nel discendere per elevarsi, portandosi a visitare coloro che giacevano in basso e per elevare quanti volevano essere uniti a lui».

So che il vescovo Michele comprenderà, insieme con me, queste parole di Agostino. È il suo stile umile, peraltro; quello per cui maggiormente lo stimo e gli voglio bene. «Discendere per elevarsi, portandosi a visitare coloro che giacevano in basso e per elevare quanti volevano essere uniti a lui».

*Prefetto del Dicastero delle cause dei santi

 

 

 

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