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Portalecce rilancia volentieri un articolo redatto dal vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, dal titolo “Accogliere e custodire: ecco il senso della vita”, apparso sabato 6 maggio in prima pagina su “Nuovo Quotidiano di Puglia”.

 

 

 

Che il nostro mondo sia immerso in una grande nebbia dove tutto appare confuso e sfuocato è presto detto. Lo confermano molte indagini sociologiche. Lo smarrimento è più evidente nel mondo adolescenziale e giovanile ma serpeggia, sia pure in modo nascosto e latente, anche tra gli adulti. In questo clima, la domanda da porsi è quella che Jacques Maritain (1882- 1973), in un intervento a Tolosa, rivolse alla “Comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù”, dove si era ritirato, dopo la morte della moglie Raïssa: «Che cosa vogliono gli uomini prima di tutto? Di che cosa hanno bisogno prima di tutto?». Era, infatti, consapevole che, anche quando sembra il contrario, gli uomini rimangono sempre cercatori. Anelano alla luce, alla verità, alla felicità. Per questo rispondeva: «Hanno bisogno di essere amati, di essere riconosciuti, di venire trattati come esseri umani; di sentire rispettati tutti i valori che ognuno porta in sé»1.

Le aspirazioni fondamentali e ineliminabili, presenti nel cuore dell’uomo, si possono sintetizzare con due verbi: accogliere e custodire. Due ideali strettamente uniti tra di loro, come una sorta di endiadi, quasi due facce della stessa medaglia. Valori originari e originali, inscritti nella natura umana, marchiati a fuoco in ogni persona dalla nascita alla morte. Già nella primissima fase della generazione, quando si è ancora nel ventre materno, si stabilisce un rapporto di accoglienza e di custodia. La simbiosi è perfetta. La madre e il figlio sono due in uno. Vivono in una unità inscindibile, fatta di carne, di sangue e di spirito.

La madre custodisce in sé il figlio, lo sente come parte della sua persona, lo accoglie, lo nutre e lo cura. Poi lo genera, lo porta alla luce e lo dona al mondo. Avverte che non è un’escrescenza, un grumo di sangue, ma un essere vivente. È il suo piccolo, adorato bambino! Non un peso, ma un dono di inestimabile ricchezza. A sua volta, il figlio consente alla madre di sperimentare la bellezza della maternità. Non per un ragionamento, ma per un’esperienza sensibile percepisce che la madre è l’essenza stessa della sua vita, la sua unica possibilità di esistere e di crescere. Avverte in modo empatico che è lei la fonte della sua esistenza. Sente che, senza di lei, la sua vita andrebbe inevitabilmente incontro alla morte. Il calore che lo avvolge si affievolirebbe e il grembo materno si trasformerebbe nella sua tomba.

Dipende totalmente da lei e non vuole staccarsi da lei. Non si dispiace di vedere con gli occhi della madre, di sentire all’unisono con i suoi sentimenti, di lasciarsi avvolgere dal suo caldo tepore e di vivere del suo amore. Non cerca il distacco e non si avventura in strani ragionamenti, né si erge a rivendicare il principio di autonomia e di autodeterminazione. È mosso solo dalla brama di vivere. Presagisce che la vita vuole solo vivere, e non trastullarsi con pensieri irreali e nocivi all’esistenza. Senza essere grande filosofo, anzi essendo il più grande filosofo, sa bene che bisogna primum vivere, deinde filosophari.

I verbi accogliere e custodire indicano il senso più profondo della vita. Tracciano il cammino che bisogna percorrere: il sentiero della prossimità e della fraternità! Sottolineano che niente ci è estraneo e tutto ci appartiene. Indicano a tutti che la regola suprema è stare accanto all’altro con attenzione e amore, rispettando e accompagnando il suo cammino, facendosi carico delle sue difficoltà, custodendo la sua vita come un bene assoluto. In questo senso, l’Antico Testamento usa il termine “custode” (“shomer” in ebraico) e lo riferisce a Dio: «Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra» (Sal 121, 4-5). Come l’Eterno custodisce la sua creatura, così l’uomo è chiamato a custodire il mondo in cui dimora e l’altro uomo, riconosciuto e accolto come fratello e amico (cf. Sal 127,1).

La società dovrebbe agire come una madre e stabilire relazioni come quelle della madre con il suo bambino. L’etica non è solo comportamento da assumere (ἔθος), ma è soprattutto casa (οἶκος) da abitare. È una nota semplicemente umana che dovrebbe essere rispettata da tutti. Non è una legge da osservare o una regola astratta a cui attenersi, ma un moto del cuore da cui non ci si può sottrarre, una relazione da rinsaldare, un desiderio da coltivare. È anche uno sforzo da compiere. Sì, esatto, lo sforzo di aprire la porta di casa, intesa come costruzione materiale, ma anche come focolare, cuore, famiglia e confini. Vuol dire aprire le braccia a chi chiede aiuto e desidera riposarsi dalle fatiche, condividere un’esperienza e creare uno scambio di vita. L’altro non è un “utente”, un estraneo, un nemico, ma un compagno, un amico, un fratello.

Nel suo umanesimo integrale, Jacques Maritain auspicava che gli uomini avvertissero di essere «compagni di viaggio che per un incontro fortuito si trovavano riuniti quaggiù, camminando sulle strade della terra […] in buon accordo umano, con buon umore e con cordiale solidarietà»2. Ecologia e salvaguardia del creato, accoglienza e cura della vita dall’inizio alla fine, solidarietà con il migrante e l’emarginato formano un solo e unico comandamento. La bellezza della vita consiste in questo: accogliere Dio, custodire gli uomini e salvaguardare il creato. Perché, dunque, attenersi alla cultura dello scarto e non praticare l’etica della cura e della custodia? Perché sviare da questo sentiero che porta alla felicità e alla pace?

1 J. MARITAIN, La vocazione dei Piccoli fratelli di Gesù, La Locusta, Vicenza, 1982.

2 ID., Per una politica più umana, Morcelliana, Brescia 1979.

 

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