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Ormai è certo. Il mondo della scuola vive di mode, e la moda del momento è quella istituita da genitori stranieri che, non si capisce bene con quale competenza didattica, pontificano sul valore della scuola italiana e, cosa ancora più irritante, sulle capacità didattiche dei docenti.

 

 

 

Sono note le lamentazioni della mamma finlandese, la quale lamentava l’impostazione storicistica e contenutistica della scuola, alle quali hanno fatto eco, a pochi giorni di distanze, le critiche della madre polacca, che invece lamentava la tendenza dei docenti a proporre nozioni da imparare a memoria e l’assenza di spazi dove gli allievi potessero coltivare interessi sportivi, artistici, ecc.

Su queste critiche ci sarebbe molto da dire, ma il nucleo di fondo dal quale esse prendono origine sembra essere relativo al desiderio di avere una scuola che “alleggerisca” le “quote di impegno e di sforzo” e si declini su di un impianto organizzativo che si ispiri al modello delle attività ludico-ricreative dei centri sportivi e sociali.

Ciò che tali convinzioni omettono di considerare è che la scuola, soprattutto quella secondaria (sia di primo che di secondo grado), per essere formativa, deve necessariamente rispettare due condizioni: avere un forte ancoraggio alla dimensione dei saperi ed essere orientata a sollecitare non la gratificazione e la curiosità, bensì l’interesse. Ed entrambe queste attività, richiedono comunque una certa quota di impegno e di “sforzo”.

Anche su questo il discorso potrebbe essere molto ampio. In questa sede è sufficiente ricordare la distinzione tra curiosità e interesse. La curiosità implica l’orientamento episodico e frammentato dell’attenzione su un oggetto, attenzione dovuta soprattutto al fatto che questo presenta caratteristiche di novità (come avviene per il bambino che ha un giocattolo nuovo: nell’immediatezza del regalo tale oggetto occupa tutto il suo spettro attentivo, quando esso invece diventa un oggetto consueto, il bambino ritira l’attenzione da esso, fino al punto da dimenticarsene). L’interesse è invece un dinamismo più complesso e profondo. Esso rivolge attenzione a un oggetto perché, attraverso la sua esplorazione sistematica e continua, riconosce in esso un contenuto rilevante e significativo per il . È questa la base fondamentale della motivazione ad apprendere, ma per essere costruita, come si può comprendere, richiede da parte del soggetto un certo impegno e una certa costanza.

L’altro elemento da considerare è che la scuola fa formazione attraverso la mediazione dei saperi. Al di fuori di tale perimetro essa perde la sua identità. Il suo compito, per dirla con H. Gardner, è quello di promuovere nell’allievo l’acquisizione delle forme di pensiero che servono per confrontarsi produttivamente con l’esperienza. E tali forme di pensiero possono essere formate esclusivamente attraverso la mediazione dei saperi. Al termine degli studi secondari, gli studenti devono essere in grado non soltanto di conoscere i concetti fondamentali relativi alle diverse discipline, ma devono anche essere in grado di “pensare” secondo la prospettiva insita in ciascuna di esse.

I saperi non sono soltanto nozioni. Essi portano inscritti in se stessi un modo di guardare all’esperienza e di darle significato. Sempre H. Gardner ci ricorda, in questo senso, che qualunque contenuto si presenti all’allievo e che sia tratto da una qualsiasi scienza (matematica, fisica, arte, filosofia, scienze, letteratura, religione, ecc.) reca in se stesso due dimensioni: la dimensione afferente alla materia, data dall’insieme delle conoscenze che afferiscono ad un determinato dominio scientifico,; e la dimensione della disciplina, data dalle premesse, dagli strumenti , dai sistemi di valore e dalle metodologie che ogni scienza utilizza per esplorare l’esperienza e ricavare conoscenze su di essa.

Una scuola che voglia indebolire il riferimento ai saperi attraverso approcci generici o univocamente focalizzati sul fare e sull’esperienza tradisce irrimediabilmente tale funzione.  Non è più scuola, è altro.

E a questo riguardo, non si tratta nemmeno di costruire programmi che esplorino un numero ampio di concetti relativi a ciascuna disciplina. Il prof. E. Damiano, a questo riguardo, sostiene che l’approccio didattico deve essere esemplaristico: esso cioè deve proporre lo studio di quei contenuti che rendono maggiormente evidenti modi di pensare propri di ciascuna scienza. È in questo modo che si forma nell’allievo non soltanto la capacità di apprendere altre conoscenze, ma anche la capacità di confrontarsi con i problemi e le emergenze che vengono poste dal confronto con il reale.

Il modello didattico proposto dai genitori finlandese e polacco (e non soltanto da loro) non è soltanto lontano, ma è l’esatta negazione di questa prospettiva. E deve essere necessariamente arginato. Perché il rischio è quello di indebolire lo spessore formativo della scuola.

 

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