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Riuscirà il nuovo Parlamento a elaborare e varare una legge elettorale degna di un Paese autenticamente democratico e dedito al bene pubblico? Non solo. Riusciranno i cittadini a ritornare a forme rinnovate di formazione e partecipazione politica per cambiare la legge elettorale e determinare una migliore classe politica?

 

 

Ancora qualche ora, forse un giorno nei migliori casi, e presto dimenticheremo il dato primo, fondamentale e sempre più crescente: il numero di coloro che scelgono di non votare. È il primo “partito” e dagli anni ’70 è passato dall’8% al 46% di ieri. Alle elezioni per il rinnovo del Senato e della Camera ha votato il 63,91% degli aventi diritto, nei 7.904 comuni italiani, con un calo di nove punti rispetto alle ultime politiche. Ovviamente parliamo di media nazionale. Alcune aree stanno meglio, altre proprio male. Il male è diffuso in tutte le regioni ma è particolarmente forte al sud, dove diserta le urne quasi la metà degli aventi diritto. Rispetto al 2018 fra le regioni che registrano il minor calo dell’affluenza ci sono Lazio, Lombardia, Sicilia (dove si è votato anche per le elezioni regionali), Toscana e Friuli-Venezia Giulia. Relativamente alta l’affluenza anche in Emilia-Romagna, mentre i dati più bassi si registrano in Campania, Sardegna e Calabria. Alle precedenti politiche invece era stato proprio il Sud a trainare i dati di affluenza rispetto al passato (cf. Ansa).

Sono convinto che qualsiasi analisi del voto debba partire necessariamente da questo dato e ciò spetta a tutti: vincitori, vinti, agenzie educative, media, scuola e università, comunità di fede religiosa e associazioni e cosi via. Perché molti non votano? Perché meno di due su tre decide di assolvere a quello che è un diritto e anche un dovere, come afferma la Costituzione (art. 48)? Si dovrebbero realizzare – risorse permettendo – frequenti ricerche, con campioni rappresentativi, per scoprire le motivazioni del non voto. Certo restano sempre molte ragioni nascoste nel segreto degli elettori. Capire chi non vota o chi vota l’uno invece di un altro, resta spesso una domanda senza risposta o risposte insufficienti. Il voto è una realtà lineare vissuto in una società complessa. È in parte un momento di raccolta, di quanto seminato nel passato e in parte di semina per il futuro.

Alle elezioni, elettori e candidati, arrivano, nel nostro Paese, con grandi deficit formativi e seri problemi di tipo culturale, scolastico e universitario. Cresce l’analfabetismo di ritorno; esiste una crisi di larghi settori della scuola e dell’università, abbiamo saperi ridotti, monotematici e poco interdisciplinari, effimeri, estremamente dipendenti dalla superficialità di diverse fonti on line. Non manca solo la formazione civica, sociale e politica, manca la formazione tout court! Lo dicono le statistiche scolastiche e universitarie, la debolezza o inesistenza di percorsi formativi nei partiti politici, nelle comunità di fede religiosa, nel volontariato, nell’associazionismo, nello sport e via discorrendo. Un esempio per tutti: gli stranieri che chiedono la cittadinanza italiana sono chiamati a conoscere la Costituzione. Una domanda: ma l’italiano medio conosce la Carta Costituzionale? È stato formato seriamente alla sua visione antropologica ed etica?

Questa è, dunque, la situazione in ampi strati di popolazione. E dove non c‘è formazione, o ce n’è poca e scadente, è molto facile essere influenzati dalle grida del momento, senza nessuna capacità critica di discernere, anche nelle scelte elettorali. Dovremmo anche approfondire anche le forme di analfabetismo emotivo che riducono la capacità e creano una dipendenza da quei leader che gridano e colpiscono di più. Un riferimento appropriato è a ciò Hannah Arendt chiamava “estraneazione”, che portava le masse ad accogliere, invaghirsi e poi subire forme di dittatura (Le origini del totalitarismo). Bonhoeffer, a proposito, avrebbe detto sinteticamente, dei suoi concittadini in rapporto al nazismo, che «la potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri» (Resistenza e Resa).

Ma non c’è solo questo. C’è anche, a mio personalissimo avviso, il problema della legge elettorale vigente (il Rosatellum), contro la lettera e lo spirito della Costituzione, per molti aspetti eticamente riprovevole, strettamente legato alla storia dei partiti. Dalla dissoluzione dei grandi partiti – come la Dc, il Pci e il Psi per citare i maggiori – le formazioni politiche sono entrate in una crisi che li ha portate ad essere poco rappresentative del Paese reale, scarsamente capaci di elaborare programmi di spessore e frequentemente irretite da corruzione e criminalità organizzata. I partiti italiani sono al lumicino perché hanno smesso di fare politica e hanno adorato il dio minore del consenso per conquistare il dio maggiore del potere (e del denaro, nella parte relativa agli interessi non leciti). La classe politica comunale e regionale, in media, penso che sia migliore di quella nazionale (contribuisce anche il fatto che sono eletti con una legge migliore per democrazia ed eticità, a parte l’assurdità del voto disgiunto). I partiti nazionali sono per lo più lontani dal Paese e ripiegati su stessi. Proprio perché in una crisi da cui non riescono, a livello nazionale, a venir fuori, difendono l’attuale legge elettorale anticostituzionale per cui poche persone (i cosiddetti leader, i cui nomi hanno spesso affiancato i simboli dei partiti) “nominano” il Parlamento, determinano le scelte di un Paese, dettano la linea politica e fanno scelte.

Riuscirà il nuovo Parlamento a elaborare e varare una legge elettorale degna di un Paese autenticamente democratico e dedito al bene pubblico? Non solo. Riusciranno i cittadini a ritornare a forme rinnovate di formazione e partecipazione politica per cambiare la legge elettorale e determinare una migliore classe politica? God knows. Dios sabe.

 

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