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Dalla tribuna del Corriere della sera l’autore di Gomorra pontifica sulla regolarizzazione della ‘professione’ di ‘sex worker’, non considerando l’assoggettamento e lo sfruttamento verso chi oggi esercita la prostituzione.

 

 

 

Il suo ‘verbo’ è talmente indiscutibile che a una giornalista seria come Monica Ricci Sargentini viene fatto pesantemente pagare il dissenso. Ci sono norme e strumenti per prevenire e contrastare la schiavizzazione di giovani straniere: perché non li si utilizza?

Il problema non è quel che Roberto Saviano scrive. Il problema è dove lo scrive, è la risonanza data a ciò che lui scrive, è l’ostilità mediatica contro chi discute le sue tesi, al limite dell’ostracismo. Non colpisce che l’autore di Gomorra si affezioni a moduli argomentativi e li applichi in modo ripetitivo a ogni questione: il mondo è sufficientemente largo per ospitare chi dice sempre le stesse cose, e pretende che il prossimo resti a bocca chiusa e non obietti alcunché. La difficoltà sorge quando chi ha tendenze di questo tipo, invece che sfogarsi salendo su una panchina ai giardini pubblici, trovi a disposizione una tribuna un po’ più ampia. Per esempio, quella del Corriere della sera.

Andiamo per ordine. Da sempre il nostro sostiene la legalizzazione della droga, in particolare della cannabis, con argomenti agevolmente confutabili. La sua tesi è che “la droga è già libera, venduta da migliaia di pusher e controllata da camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra. Con la legalizzazione la sottrai al loro controllo e la poni sotto il controllo dello Stato”[1]. Che è come “se per combattere il dilagare della corruzione nella pubblica amministrazione si consentisse ai pubblici dipendenti un livello minimo di corruttela, magari introducendo un margine di profitto per l’ufficio di appartenenza, così da tenere sotto controllo il mercimonio delle pubbliche funzioni[2].

Qualche giorno fa, nella rubrica che ha su Sette, il settimanale allegato al Corriere della sera, egli ha trasferito la medesima logica alla prostituzione. Dopo aver confermato il rammarico per l’inammissibilità sancita dalla Corte costituzionale ai referendum sul fine vita e sulla droga legale (che cosa c’entrano con la prostituzione? a saperlo…), e dopo aver ribadito che “sarebbe ancora la longa manus del Vaticano a impedire che su fine vita e cannabis gli italiani possano esprimersi” - tesi tanto originale quanto vera -, il Camorrologo passa alla prostituzione. Per sancire anzitutto che la legislazione su di essa “in Italia è ferma agli anni Cinquanta e tende, sostanzialmente, alla criminalizzazione”.

Qual è la strada maestra? “(…) si deve parlare di “sex worker” e non di prostituzione - egli spiega - per porre l’accento sul fatto che si tratta di una vera e propria categoria professionale, che chiede di essere considerata tale senza che i pregiudizi circa lo stile di vita continuino a lederne i diritti. Le relazioni di potere che si instaurano con chi gestisce il lavoro dei sex workers e con i clienti necessitano di essere regolamentate proprio per evitare abusi, come in tutte le relazioni di potere, come in tutti i lavori”. Saviano accompagna lo scritto della sua rubrica con una fotografia, evidentemente confidando che se un lettore non ne coglie il senso per lo meno recuperi guardando la figura: “Nella foto che ho scelto questa settimana un materasso: ecco cosa accade quando lo Stato preferisce l’illegalità alla regolamentazione perché criminalizzare un fenomeno non lo elimina, regolamentarlo, invece, tutela chi vi è coinvolto”.

Andare in automatico fa brutti scherzi: per la droga come per la prostituzione. La quale da decenni in Italia coincide nelle modalità più visibili con una tragica realtà di tratta e di schiavizzazione. Le ragazze che compaiono di notte ai margini delle vie delle città, o di alcune strade particolarmente frequentate, talora ancora minorenni, nigeriane, moldave, rumene… non erano partite dai luoghi di nascita per esercitare la prostituzione in strada. Alcune di loro sono state frodate: chi poi sarebbe diventato il loro sfruttatore aveva prospettato un lavoro di infermiera, o di badante, o di colf, e una volta raggiunta l’Italia ha usato o fatto usare verso di loro ogni forma di violenza, legando il forzato meretricio alla sopravvivenza quotidiana. Quale ‘regolarizzazione’ andrebbe praticata in questi casi? Come nessuna di queste giovani donne desiderava a venire da noi per esercitare la prostituzione, così nessuna di loro ambisce a una ‘regolarizzazione’ dell’attuale posizione. Il materasso della fotografia è l’emblema non già di una illegalità da far emergere e ‘regolamentare’, bensì di una condizione di assoggettamento da prevenire e da contrastare.

Prevenzione e contrasto non sono una chimera. Ci sono gli strumenti normativi e i mezzi materiali per perseguirli. La legge sull’immigrazione (il t.u. n. 286/1998 e succ. mod.) all’art. 18 contiene una disciplina specifica per venire incontro alla tragedia che vivono queste ragazze, perché prevede che “quando siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità”, derivanti dalla decisione di sottrarsi alla violenza che subisce, e/o da dichiarazioni che renda nel corso di indagini, o di giudizi a carico dei responsabili, allo/a straniero/a viene rilasciato un permesso provvisorio di soggiorno, accompagnato se necessario dall’inserimento in un programma di assistenza e di integrazione. Alla scadenza, il permesso provvisorio può diventare a tempo determinato, o indeterminato, se la persona che ha inteso sottrarsi allo sfruttamento desidera restare e lavorare onestamente in Italia; in alternativa, e a sua scelta, è previsto il rientro nel Paese di origine, se vi sono concrete garanzie di reinserimento.

Non è il libro dei sogni: è una legge dello Stato, in vigore da quasi un quarto di secolo. Ha trovato più volte applicazione in varie zone d’Italia, da Rimini al Salento, e ha permesso più volte di disarticolare organizzazioni criminali dedite alla tratta, e di dare un futuro sereno a tante giovani donne. Ha consentito anche di costruire rapporti di collaborazione con più d’uno dei Paesi di origine, per garantire un rientro a casa in sicurezza. Esige sforzo e condivisione di impegno: fra tutte le istituzioni potenzialmente interessate - questure, uffici giudiziari, enti territoriali - e fra esse e le associazioni di volontariato a ciò dedicate; ricordo per tutte il lavoro notevole svolto su questo fronte dalla “Papa Giovanni XIII”, sulla scia del suo fondatore, don Oreste Benzi, che ha restituito un sorriso e un futuro a non poche ragazze e alle loro famiglie.

Oggi in troppe vie cittadine o extraurbane continua a manifestarsi l’angosciante spettacolo di giovanissime che offrono il loro corpo e che sono picchiate se non consegnano allo sfruttatore l’entrata stabilita: non dipende solo dal profilo criminale dello schiavista e dalla depravazione del ‘cliente’; dipende anche dal fatto che in quella città o in quell’area il sindaco, il questore, il procuratore della Repubblica - e magari pure il prefetto, cui dovrebbe competere l’impulso e il coordinamento - hanno deciso di ignorare il fenomeno, di girarsi altrove, di comportarsi come se quelle donne assoggettate fossero fantasmi.

Dal maggior quotidiano italiano ci si attenderebbe che richiami l’attenzione delle autorità centrali e territoriali per riprendere in modo diffuso e omogeneo la repressione di questo traffico di esseri umani e il recupero delle vittime; non ci si attende la chiacchiera sulla ‘regolarizzazione’: che cosa c’è da ‘legalizzare’ in tutto questo? Sì certo, l’esercizio della prostituzione non coincide solo con queste odiose modalità: vi è poi una fascia di persone che mercificano il loro corpo senza essere sfruttate da nessuno, magari a casa propria o in luoghi più accoglienti del materasso della foto, in totale autonomia. Pensate che costoro desiderino essere ‘regolarizzate’?

Le sorprese non finiscono qui. Nei giorni successivi all’uscita di Sette qualche centinaio di persone, fra cui appartenenti ad associazioni femministe, hanno scritto alla testata per contestare il Verbo savianeo. Monica Ricci Sargentini, firma autorevole della redazione esteri del Corriere, già caporedattore de l’Unità, pur non prendendo parte direttamente alle proteste, ne ha condiviso i contenuti e ne ha data notizia in privato a una conoscente. La direzione del quotidiano, venuta casualmente a saperlo, le ha inviato una formale lettera di richiamo, e alla sua replica le ha inflitto la sanzione disciplinare della sospensione di tre giorni dal lavoro.

Per il principale quotidiano italiano Saviano non va soltanto rilanciato ed enfatizzato. Alla sua parola deve seguire il mettersi sull’attenti senza contraddirlo, pena ritorsioni sul lavoro. Sembra di vivere una scena del set di Gomorra, e invece è la realtà.

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[1] Roberto Saviano, “Il referendum sulla cannabis fa male ai clan e salva i giovani”, in Corriere della Sera, 16 settembre 2021.

[2] Domenico Airoma, in Droga le ragioni del no. La scienza, la legge, le sentenze, cit., p. 189.

 

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