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Cinquant’anni fa come oggi, il card. Marcello Semeraro, veniva ordinato sacerdote nella chiesa madre di Monteroni dal vescovo Francesco Minerva.

 

 

 

Nonostante per lui siano giorni convulsi per via del suo trasferimento in Vaticano, dopo aver terminato il suo ministero episcopale nella Chiesa di Albano dove nel pomeriggio oggi consacrerà vescovo mons. Vincenzo Viva, suo successore sulla cattedra della diocesi suburbicaria, ha trovato il tempo per rispondere alle nostre domande ripercorrendo la sua vita sacerdotale e donando ai nostri lettori preziosi spunti di riflessione sul sacerdozio, sul ruolo del laicato e sulla sinodalità come stile e identità della Chiesa

Eminenza, don Marcello, cinquant’anni di sacerdozio, un percorso partito da Monteroni, ricco di frutti e che ora l’ha portata ad un servizio cardine per tutta la Chiesa universale. Quale figura di sacerdote aveva nel suo cuore e nella sua mente negli anni di formazione? Questa idea è poi coincisa con quella che ha vissuto per tutti questi anni?

Fatta, nel periodo liceale e con l’aiuto dei miei educatori, la scelta definitiva di rispondere alla chiamata al sacerdozio, il ministero che immaginavo era quello di essere in una comunità parrocchiale, come abituale. In fondo la mia vocazione era nata in parrocchia, nel contatto con alcuni sacerdoti e nella parrocchia immaginavo di dovere svolgere il mio ministero. Nell’ultimo anno della mia formazione iniziale, però, si fece strada l’idea che io potessi lavorare come educatore nel seminario. Prima, per un paio d’anni a Molfetta, nel seminario regionale, e poi a Lecce. Il vescovo Francesco Minerva - che ricordo con grande affetto e riconoscenza - mi ventilò tale suo programma. Alcune ragioni non ne permisero l’attuazione, sicché rimasi a Lecce e, comunque, destinato in seminario. Vi rimasi per l’anno formativo 1971/72. Il rientro, però, in diocesi di mons. Raffaele Greco - sacerdote originario di San Pietro in Lama e per molti anni intelligente professore nel regionale di Molfetta - fece sì che io fossi chiamato a sostituirlo nell’insegnamento della teologia dogmatica. Il progetto mutò e così, sino alla mia ordinazione episcopale, dal 1972 al 1998 tornai a Molfetta.

Una vita da giovane sacerdote tutta dedicata alla formazione dei nuovi sacerdoti, in un luogo molto caro al cuore della Chiesa, ma anche carico di una responsabilità che pesa ancora oggi.

Ricordo sempre le parole con le quali mons. Minerva mi salutò al momento della partenza: «Abbi un occhio speciale per i seminaristi della nostra diocesi e ricordati che, se proprio dovessi sbagliare circa l’ordinazione di un prete, preferisco sbagliare non ordinando». Era un criterio saggio. Papa Francesco lo ripete spesso. Lo fece ancora nel maggio scorso parlando ai vescovi italiani riuniti per la 74ma Assemblea generale. Disse: «In questo momento c’è un pericolo molto grande: sbagliare nella formazione e anche sbagliare nella prudenza nell'ammissione dei seminaristi. Abbiamo visto con frequenza seminaristi che sembravano buoni ma rigidi. La rigidità non è del buono Spirito… Ci siamo accorti che dietro quella rigidità c'erano dei grossi problemi: i seminaristi ricevuti senza chiedere informazioni, che sono stati cacciati via da una congregazione religiosa o da una diocesi. E poi la formazione: non possiamo scherzare con i ragazzi che vengono da noi per entrare in seminario».

Quando pensa agli anni molfettesi in che termini li ricorda?

Quelli trascorsi a Molfetta sono stati anni molto importanti per me. Un momento emozionante fu quando, nel silenzio dopo la comunione nella messa dell’ordinazione episcopale la sera del 29 settembre 1998 in Piazza Duomo a Lecce, si levò da loro il caro canto: “O stella della sera”. Per la mia nomina a cardinale, dal refettorio di Molfetta attraverso il telefono lo hanno fatto ancora! Molto spesso, ora, mi trovo a ripetere: «il mio rettore/ il mio professore diceva», così come: «mio padre mi diceva…». Nel mio ufficio di insegnamento mi sentivo realizzato; con molti degli studenti, poi, ho avuto un buon rapporto che prosegue ancora oggi: alcuni di loro ora svolgono il medesimo ministero; tanti altri sono sparsi nelle parrocchie di Puglia e accade spesso di risentirsi e rivedersi, quando giungono a Roma. Un proverbio cinese dice: «Ami tu il lavoro che fai? Non chiedere alla vita felicità più grande». È vero, perché se lo ami, ami pure le persone con cui e per cui hai lavorato.

Lei è stato non solo un sacerdote nato dal Concilio, e quel Concilio lo ha portato nelle aule delle facoltà teologiche. Il sacerdote di oggi è quello disegnato dal Vaticano II?

Il Concilio Vaticano II ha presentato la figura del sacerdozio ministeriale come essenzialmente distinto, ma pure strutturalmente coordinato al sacerdozio comune dei fedeli (cf. Lumen gentium, n. 10). Come suo compito, quindi, ha richiamato l’esercizio armonico e complementare del triplex munus: profetico, sacerdotale e regale. Non tre uffici distinti e separabili, ma un unico triplice ministero. Allentare il legame tra le due forme di partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo e slegare i tre compiti dell’unico ministero sarebbe uno sconvolgimento del magistero attuale della Chiesa e immaginarsi un «sacerdozio» di testa propria, che con quello di Cristo ha poco da spartire. Enfatizzare interiormente un compito ministeriale a discapito dell’altro (universale, ndr) a prescindere dal mandato del vescovo, è snaturare lo stesso ministero.

Si potrebbe dire che si è in virtù dei sacramenti prevale su ciò che si è chiamati a svolgere come servizio alla Chiesa?

Intendo dire che il vescovo può anche affidare a un presbitero il mandato di economo diocesano, ma questo non vuol dire che la sua questione sarà «fare soldi»! Nel decreto conciliare sul ministero dei presbiteri è scritto: «sia che offrano in mezzo alla gente la testimonianza di una vita esemplare, che induca a dar gloria a Dio, sia che annuncino il mistero di Cristo ai non credenti con la predicazione esplicita; sia che svolgano la catechesi cristiana o illustrino la dottrina della Chiesa; sia che si applichino a esaminare i problemi del loro tempo alla luce di Cristo: in tutti questi casi il loro compito non è di insegnare una propria sapienza, bensì di insegnare la parola di Dio e di invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità» (Presbyterorum ordinis, n. 4). Su questi punti oggi individuo la necessità di una grande vigilanza e somma attenzione, soprattutto da parte dei vescovi e degli educatori nei seminari. Il rischio è grave. C’è una parola: clericalismo, che Benedetto XVI indicò come «tentazione dei sacerdoti in tutti i secoli» (Colloquio coi sacerdoti, 10 giugno 2010) ed è spesso ripresa da Francesco. Le sfaccettature del clericalismo vanno da un estremo all’altro: dalla cura eccessiva della talare con fascia e altri annessi «stilistici», alla banalità liturgica e populistica...  È l’ipocrisia di chi (per dirla con Isidoro di Siviglia) «usa le parole dei santi, ma non ne ha la vita e che, invece di offrirsi a Dio, si espone alla vista degli uomini» (Sententiae XXIV, 1-2: PL 83, 699).

Nel giorno di San Giacomo, il 25 luglio del 1998 venne annunciata la sua elezione a vescovo di Oria. Da sacerdote-professore in cattedra alla Cattedra nella pienezza del sacerdozio. Come ha vissuto l’esperienza episcopale a Oria prima e per 17 anni ad Albano?

In principio col dolore del distacco dalla «scuola». Quando, al primo pomeriggio del 10 luglio 1998, nella cappella privata dell’episcopio di Lecce, l’arcivescovo Ruppi mi lesse la lettera di nomina giunta da Roma, scoppiai in pianto. Egli me ne chiese la ragione ed io gli risposi: «Non potrò più andare a scuola». Egli, di rimando: «comincia a prepararti a essere vescovo». Al pomeriggio ebbi la febbre (quell’anno l’estate fu torrida come in questo 2021); il giorno dopo, festa di San Benedetto abate, consegnai a mons. Ruppi la lettera con la risposta di accettazione, poi mi recai a pregare presso il Monastero delle Benedettine a Lecce. Le monache pensarono che fossi lì soltanto per la loro festa, ma io, sino al 25 luglio studiai nella Regola benedettina insieme col commento di San Tommaso alla lettera di san Paolo ai Galati (da cui trassi il motto per lo stemma episcopale). Pian piano compresi ch’era solo un passaggio: da quella che è la cattedra magistrale alla cattedra pastorale e che mio impegno sarebbe stato avere un vaso comunicante tra le due. Sono grato al Signore per l’esperienza episcopale ad Oria: fu la mia prima palestra e mi sentii confortato da tanti sacerdoti che erano pure stati miei compagni di seminario ed alunni. Avevo bisogno di imparare una «arte pastorale». Un mio sacerdote un giorno (eravamo insieme in auto, ricordo) mi disse: «don Marcello, ricordati che non sei più il nostro professore, ma il nostro vescovo. Non t’aspettare, perciò, che tutti noi sacerdoti studiamo e pratichiamo quel che ci dici per poi fare gli esami. Immagina un’altra situazione…». Un altro sacerdote, durante un consiglio presbiterale mi disse: «Noi preti dovremmo sapere che per fare avvicinare i lontani, dobbiamo allontanare alcuni vicini…». Così ho cominciato a imparare, dal 1998 al 2004. Ad Oria, però, ho soprattutto imparato ad amare San Gregorio magno (era il patrono della città di Manduria). Quando mi giunse la lettera di nomina, io stavo preparando per il Laterano il corso sulla sua ecclesiologia nel “Commento a Ezechiele”; pochi mesi prima del trasferimento ad Albano accadde che consegnassi la lettera pastorale “Servi per amore di Cristo” ispirata proprio dalla sua figura. Ancora oggi m’ispiro al suo motto: «proteso verso Dio con la fede e disteso verso gli uomini con la carità».

Poi la chiamata a guidare la Chiesa di Albano…

La Chiesa di Albano è stata per diciassette anni mio campo di lavoro. Come ideale prolungamento del mio precedente impegno ho cercato di promuovere la pastorale vocazionale e la formazione permanente del Clero; come prolungamento nella fede verso Dio, ho voluto rendere più decorosa e bella la chiesa cattedrale e mi sono sforzato di sviluppare gli ambiti di annuncio: la pastorale catechetica (col catecumenato degli adulti e il catecumenato crismale), la pastorale scolastica e universitaria; nella distensione dalla carità, l’opera che più mi commuove è l’avvio della “Casa per i papà separati con figli”, nata nel clima del Giubileo della misericordia, e la House Paolo VI per famiglie bisognose. Non mi è facile parlare…

Può un vescovo fare tutto questo da solo?

Tutto quello che sono riuscito a fare, però, è stato possibile per la collaborazione intelligente e generosa di tante persone, presbiteri, diaconi, religiosi/e, fedeli laici. I loro nomi sono nel mio cuore e nella mia preghiera. Accomiatandomi dal personale di Curia, nei giorni scorsi, ho ripetuto una immagine che ho inventato per loro: la mano e le dita! Il vescovo è la mano, i responsabili della Curia diocesana sono le dita. Con la sola mano avrei saputo soltanto fare una carezza, o dare uno schiaffone; con le dita mi è stato possibile, afferrare, indicare, trattenere, spingere in avanti… Il discorso è ovviamente da allargare a tanti bravi presbiteri e parroci.

 

Lei ha ricordato all’inizio del nostro incontro che dal Concilio è uscita l’idea di una Chiesa che “appiattito la piramide dei battezzati, un tempo divisa tra laici, sacerdoti e religiosi. Lei è stato un sacerdote e un vescovo che ha collaborato molto con il laicato nei suoi anni di sacerdozio e di episcopato. Come ha visto cambiare il rapporto sacerdoti-laici e il ruolo del laico in seno alla Chiesa (se è cambiato)?

L’insegnamento della teologia del laicato è stata al Laterano la mia prima cattedra, ereditata dalla prof. Rose Marie Goldie, che fu uditrice al Concilio. La figura completa di fedele laico cui guardo ancora oggi è il Venerabile Giuseppe Lazzati, che personalmente incontrai a Molfetta perché amico di mons. Tommaso Tridente, all’epoca v. rettore e quindi rettore nel seminario maggiore. Negli anni ’80 ci fu grande discussione su quella «teologia» … ma la figura completa del fedele laico è per me ancora quella di Lazzati. Parlavo prima del clericalismo e Papa Francesco precisa che non è solo una malattia di preti, ma pure di laici e laiche. Quando con l’arcivescovo Ruppi si parlava del prossimo sinodo diocesano, gli proposi di prima impegnarsi per due/tre anni nella promozione dei consigli pastorali. Mi rispose: «Marcello, se facciamo così il sinodo non lo faremo mai; facciamo prima il sinodo e da lì cresceranno i consigli parrocchiali». Non so cosa poi sia successo nella diocesi di Lecce, perché nel 1998 partii per Oria. Sia lì, sia ad Albano io non ho celebrato un sinodo, né mai pensato di farlo. Ad Albano, però, mi sono dedicato alla promozione del consiglio parrocchiale diocesano, di quello degli affari economici e, analogamente, nelle parrocchie della Diocesi. Con l’aggiunta del consiglio pastorale vicariale. Per me l’apporto del laicato è stato decisivo, soprattutto a partire dall’esperienza del convegno della Chiesa italiana a Verona e quindi con la visita pastorale (2010 al 2014). Da lì ha preso avvio lo stile di pastorale generativa che oggi, per la Chiesa di Albano, risulta essere un anticipo e un tirocinio per il «cammino sinodale» incoraggiato da Francesco e avviato in questi giorni.

 

Un cammino sinodale che spinge la Chiesa ad uscire e a cambiare, come direbbe Papa Francesco.

Come ogni vero «cammino», non si è trattato né di una passeggiata, né di un vagabondaggio, ma di un «processo», come ama ripetere Francesco. Intendo dire che il «laicato» è promosso davvero solo in una ecclesiologia integrale e integrante. In Evangelii gaudium Francesco ha configurato una Chiesa in uscita, come comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano nella liturgia eucaristica (cf. n. 24).

L’esperienza cardinalizia coincide con un evento che le sta certamente a cuore: il sinodo. Lei è stato, abbiamo ricordato, un motore del sinodo diocesano a Lecce, forse uno dei momenti più fecondi della vita ecclesiale diocesana, come anche ha dato il suo contributo ai sinodi voluti da diversi pontefici. Cosa si aspetta da questa nuova fase sinodale voluta da Papa Francesco?

Per rispondere, proseguo su quanto ho appena detto. L’esperienza fatta a Lecce è stata l’inpunt per approfondimenti successivi. Per il recente «Nuovo Dizionario Teologico Interdisciplinare» pubblicato da EDB, mi è stato chiesto di preparare la voce Sinodalità. Sono convinto che il processo indicato dal Papa esiga anzitutto la convinzione che la «sinodalità» non è anzitutto un fare, ma un modo di essere e di vivere. Per ricorrere ad una categoria teologica molto corrente direi che si tratta anzitutto di stile. Lo stile non è affatto la moda; non è esteriore, ma forza che scaturisce da convinzioni interiori e informa modi di agire e di vivere. È attuazione del mistero della comunione ecclesiale, che predilige il discernimento personale, anzitutto e, quindi, messo in comune. In secondo luogo, la sinodalità è l’attivazione di comportamenti e iniziative sinodali nei livelli distinti e comunicanti di comunità parrocchiale, Chiese particolari e Chiese locali. È qui che hanno il loro posto i luoghi consultivi di cui dicevo prima. Il terzo livello è quello delle delibere e delle decisioni che spettano al vescovo nella diocesi, alle conferenze episcopali (per le quali in Evangelii gaudium Francesco chiede un approfondimento circa la loro natura teologica), al Synodus Episcoporum come collaborazione al Papa e altre realtà che hanno diretto legame col Successore di Pietro. In ogni caso il processo sinodale è un processo sempre in atto, da compiersi con umiltà e fraternità.

È proprio grazie ad un sinodo, quello del 2001 sul ministero del vescovo voluto da Giovanni Paolo II che ebbe modo di dare inizio ad una proficua collaborazione con l’allora card. Bergoglio. Quale è stata la sua esperienza da allora?

Quell’Assemblea Generale (la decima ordinaria: 30 settembre/27 ottobre 2001) del Sinodo dei Vescovi è stata l’evento che ha contribuito a segnare una nuova svolta nella mia vita. Se non vi fosse stata quella partecipazione di sicuro la mia vita episcopale sarebbe stata diversa. Fui chiamato a svolgervi le funzioni di segretario speciale perché un primo contributo l’avevo già dato con la stesura dei Lineamenta. All’epoca ero docente di ecclesiologia al Laterano. Nel settembre 2001, come, noto, a New York ci fu la tragedia delle «torri gemelle»; di conseguenza il relatore generale, che era l’arcivescovo della città, dovette rientrare in sede e fu sostituito dal card. J. M. Bergoglio. Fu l’occasione per conoscersi e stringere una amicizia. Fu, dunque, normale che i rapporti avviati nel 2001 proseguissero negli anni successivi. In quelle settimane fui anche fisicamente più vicino a Giovanni Paolo II. Dal suo aiutante di camera seppi poi che per alcuni giorni, a tavola durante il pranzo, volle si leggesse la mia lettera pastorale alla Chiesa di Oria “I piedi della Chiesa”. Forse anche per questo pensò alla mia persona, quando si rese necessaria la provvisione alla Chiesa di Albano. Il 18 settembre 2004, giunto a Lecce per il decennale della visita a Lecce del Papa, il card. Re mi chiese di trattenermi dopo il pranzo nel seminario (fatto costruire dall’arcivescovo Ruppi); quindi mi disse: «Ieri sono stato a Castel Gandolfo e ho incontrato il Papa; mi ha detto di informarti che ti ha nominato vescovo di Albano. Sentiti con il Nunzio in Italia»! Io domandai: «Dove si trova Albano?». Ridendo, mi rispose: «Confinante con Castel Gandolfo». Giovanni Paolo II non ho mai potuto accoglierlo nelle Ville Pontificie, ma prima di morire volle farmi dono di una sua talare, ora conservata nell’episcopio di Albano. Per diversi anni, invece, ho svolto il dovere e il compito di accogliere Benedetto XVI e questo mi ha dato la possibilità di avviare con lui un rapporto di intimità. Egli volle incontrare il presbiterio della diocesi di Albano, consacrare il nuovo altare della cattedrale e inaugurare la nuova cattedra episcopale: è stato un legame di paternità e filialità proseguito anche dopo la sua rinuncia alla Sede petrina sino ad oggi.

A differenza dei predecessori Papa Francesco ha scelto di non venire in vacanza nella sua diocesi (oggi il palazzo è un museo sul papato, ndr). È lei che va in Vaticano a trovarlo?

Il nuovo Papa, Francesco, mi fece l’onore della prima udienza ufficiale registrata nel Bollettino della Sala Stampa del 18 marzo 2013: «Il Santo Padre Francesco ha ricevuto ieri pomeriggio in Udienza, presso la Domus Sanctae Marthae: S.E. Mons. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano; il R.P. Adolfo Nicolás Pachón, Preposito Generale della Compagnia di Gesù». Al termine, accompagnandomi in ascensore mi disse ridendo: «Ti ho dato la precedenza perfino col mio preposito generale; chissà come commenteranno!». Francesco mi propose di fungere da segretario del nuovo organismo del Consiglio di Cardinali, nel quale mi diede diritto di parola e di voto. Il resto è noto. Al mattino del primo ottobre 2019 mi raggiunse per telefono: era festa di Santa Teresa di Gesù Bambino (di cui Francesco è molto devoto) ed anche anniversario della pubblicazione della mia nomina ad Albano. Mi chiese: «Da quanti anni sei ad Albano?». Gli risposi: «oggi, sedici». Di rimando: «Non ti sono sufficienti? Non ti bastano?». Domandai: «Cosa significa?». «Ora ho bisogno che tu stia a Roma», mi rispose. Il rapporto con questi Papi mi ha aiutato ad allargare il senso della responsabilità pastorale, ad accrescere nel mio animo il «senso della Chiesa» facendomela sempre più amare e così con più generosità servire. Il giorno in cui ricevetti la berretta cardinalizia andai a pregare in solitudine davanti alla tomba di San Paolo VI. Nel cuore mi risuonavano le parole scritte nel suo “Pensiero alla morte”: «Potrei dire che sempre l'ho amata [la Chiesa] … Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone…».

Oggi, da Prefetto della Congregazione delle cause dei santi, ha la possibilità ancora di più di conoscere e venire a contatto con esempi di santità sacerdotale. Al di là di esperienze eroiche, chi è il prete santo “della porta accanto”?

Il «pensiero» di San Paolo VI che ho appena citato si chiude con l’espressione comunione dei Santi. Nel mio nuovo ufficio di Prefetto della Congregazione delle cause dei santi sono chiamato a contemplare sempre più in profondità questa communio Sanctorum, che è il frutto della risposta compiuta alla vocazione universale alla santità. Il Vaticano II l’ha descritta nel capitolo quinto della sua costituzione sulla Chiesa del Vaticano II. Nel progetto originario del testo era il vertice del documento del De Ecclesia. Nella redazione conclusiva del testo ne è il cuore, mentre il fastigio è offerto dalla Beata Vergine Maria: tipo, modello e madre della Chiesa. In Gaudete et exsultate Francesco rimanda al tema della vocazione universale alla santità (cf. nn. 6-9). È qui che si deve collocare la figura del santo «della porta accanto»: è quello che vive nelle medesime condizioni nelle quali si trova ciascuno di noi, ma proprio nell’ordinario modo di vivere egli riconosce e accoglie la voce del Signore, che lo chiama a vivere integralmente la grazia del battesimo traducendola in scelte concrete di vita. Nell’esortazione apostolica il Papa porta l’esempio di «genitori che crescono con tanto amore i loro figli», di uomini e donne «che lavorano per portare il pane a casa», di malati e persone anziane che continuano a sorridere. Conclude: «In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante» (n. 7). Vi troviamo ordinarietà di vita, dedizione generosa ai propri compiti, capacità di sorridere…

Un santo che rende straordinario o sacro ciò che è ordinario o profano?

Madre Teresa di Calcutta diceva che la vera santità consiste nel fare la volontà di Dio con il sorriso. Voi mi domandate del prete santo “della porta accanto”. Domenica 29 agosto sono stato a Isola del Gran Sasso per la festa popolare in onore di San Gabriele dell’Addolorata. Pur nell’osservanza delle norme sanitarie, nel nuovo santuario a lui dedicato erano presenti circa mille persone. Come mai? Me lo sono chiesto per l’intera funzione. Durante la sua breve vita terrena san Gabriele non ha fatto nulla di esteriormente eccezionale. Fu semplicemente un bravo religioso, fedele alla sua vocazione, sempre gioviale sì da essere definito il santo del sorriso. «Per piacere di Maria - scrisse il postulatore della Causa di beatificazione - egli si spogliò totalmente del suo giudizio e della propria volontà, rendendosi docile e pieghevole a chicchessia; imparò a sopportare i disagi con allegrezza, le noie e le tentazioni con coraggio e confidenza; si studiò insomma di ricopiare in sé, quanto gli fu possibile, l’immagine di Gesù per amor di Maria». Ecco un santo “della porta accanto!” Nei nostri «condomini», riuscirà, ciascuno di noi sacerdoti, ad essere la porta accanto? Nel vangelo c’è una figura che, a chi bussa, risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa…» (Lc 11,7). Guai se fosse la figura di un sacerdote. Infatti, c’è pure un giudizio: «Mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa… Incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”» (Mt 25,10-11).

 

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