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La storiografia, sin dall’antichità, ci ha consegnato diverse narrazioni di terribili pandemie. Tucidide affrescò con toni impressionanti la peste di Atene del 430 a.C., Galeno ebbe a raccontare invece la tremenda peste antonina del II sec., portata dalle truppe romane rientrate dall’Asia.

 

 

E che dire di Procopio che si ritrovò nel bel mezzo dell’infuriare del morbo giustinianeo (la prima epidemia di peste bubbonica storicamente documentata) capace di desolare nell’anno 541 l’intera Bisanzio? La peste nera del Trecento sarebbe stata una catastrofe finanche peggiore: riuscì addirittura a raggiungere l’Irlanda e la Scandinavia, mietendo in Europa circa venti milioni di vittime. Le drammatiche pagine che descrivono tali eventi, pur essendo state redatte in epoche ben diverse, sembrano percorrere il medesimo filo narrativo. C’è sempre l’escalation di un’emergenza sanitaria, il fenomeno delle voci incontrollate, la razzia dei beni di prima necessità, la caccia ad untori veri o presunti, l’affannosa ricerca del paziente-zero, la descrizione dei rimedi più improbabili, lo scontro fra le autorità.

Da questo punto di vista, non fa eccezione il discorso epidittico I prodigi di Castorio Sorano che descrive la pestilenza che nel 1656-57 funestò il Regno di Napoli: “Salita in quei giorni sul destriero dell’ira di Dio, una fierissima peste correva le contrade d’Italia. Oh, quale pietà era il veder sfuggito dalla moglie il marito, dal padre il figlio, dalla madre il bambino, e quelle poppe, un tempo acquedotti di vita, divenire calici di morte. Nulla era più rimasto di umano all’uomo che le miserie. Non si faceva più differenza fra il letto ed il sepolcro, fra il feretro e la mensa, fra il vivo ed il morto. Chi non aveva la morte nelle viscere, ne aveva i pallori in volto. Chi non moriva agonizzava. Chi non era vicino alla morte era presso ai morenti”. È proprio in questo scenario, a dir poco tragico, che si riscoprì il culto e la preghiera verso Sant’Oronzo.

La relazione a papa Innocenzo XII del 1691 ricorda come, al fine di contenere lo sviluppo del morbo che infuriava per tutto il Mezzogiorno, si provvide a costituire un cordone sanitario-militare che separasse l’area barese, dove ormai dilagava il male, dalla Terra d’Otranto. Tale linea di demarcazione passava dal territorio di Ostuni. Or avvenne che, in quelle drammatiche circostanze, i soldati posti a presidio della zona iniziarono ad essere testimoni di singolari apparizioni. Più volte fu notato sulla cima del Monte Morrone un personaggio dall’aspetto ieratico, rivestito di abiti sacerdotali, levare in cielo una croce. Altre lo si vide come fare la sentinella per i viottoli della collina per poi, improvvisamente, sparire. I militari insomma avvertirono la presenza misteriosa e potente di qualcuno che vegliava su di loro e che al loro fianco proteggeva l’intero Salento dall’epidemia.

Il popolo ostunese riconobbe in quell’ignota figura il nostro santo e, da quel momento, la devozione si sviluppò ardentissima. Ma fu soprattutto a Lecce che il clima divenne come impregnato di soprannaturale quando il sacerdote e veggente calabrese Domenico Aschinia riferì di aver visto Oronzo ed i suoi compagni martiri presidiare le porte della città, impedendo agli spiriti maligni, portatori del contagio, di entrarvi. Non vogliamo qui analizzare i complessi eventi storici che portarono al patronato oronziano del Seicento perché ci ripromettiamo di farlo su queste pagine in futuro. Tuttavia, è un fatto che il capoluogo salentino rimase pressoché immune dalle epidemie di peste del 1656-57 e del 1690-91 (come anche dalle ondate di colera che investirono il Sud Italia nei secoli successivi).

Tale salvezza dai contagi di massa venne sempre attribuita dalla vox populi all’intercessione presso Dio del protovescovo leccese. La certezza che il martire Oronzo rendesse invulnerabile la propria città dalle epidemie è rivelata anche dall’epigrafe, visibile nel Sedile, che ricorda l’invito alla casa reale di stabilirsi tra le mura leccesi nel caso in cui Napoli fosse stata colpita da qualche male.

La bella preghiera scritta da mons. Michele Seccia e rivolta alla Vergine ed al nostro santo patrono rievoca dunque un legame di fede antichissimo.                     

    

 

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