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Era il 21 ottobre 1915, di sera che quasi tramontava. Sul Monte Cappuccio spirava un vento freddo e triste, che già sapeva di autunno inoltrato. L’artiglieria imperiale cannoneggiava maledettamente, facendo mulinare in aria intere zolle di terra. Lì, tra i soldati italiani, stava anche il caporal maggiore Gennaro Valerio, classe 1884, nativo di Turi.

 

 

Era il figlio del sagrestano della chiesa matrice ed al paese aveva lasciato la moglie e tre bambini. Giunto al fronte da qualche settimana, era finito subito nella prima linea avanzatissima, dove si rischiava di capitare addirittura sotto i colpi del fuoco amico. Faceva parte del 139º Reggimento Fanteria e si era spesso distinto per coraggio, senso del dovere e spirito di abnegazione.

Ad un certo punto, il duca d’Aosta ordinò l’avanzata generale della Terza Armata. Tutti balzarono fuori dalle trincee per lanciarsi all’assalto, baionette in pugno, contro i reticolati di filo spinato. Furono investiti in pieno dalla tempesta di colpi delle mitragliatrici nemiche. Il caporale Valerio vide cadere i compagni alla propria destra e alla propria sinistra. Ad un tratto, un bagliore. Si ritrovò disteso, si accorse delle stelle che già luccicavano. Un proiettile austriaco lo aveva colpito. Gli aveva ferito il gomito, squarciato la divisa, perforato il libretto del ruolino di marcia, trapassato la camicia, trivellato il portafogli che, insieme alle lettere della moglie, teneva in una tasca sul petto. Ma non lo aveva ucciso. La pallottola mortale era andata come ad incastonarsi nell’immaginetta di Sant’Oronzo che il caporale aveva preso al suo paese, prima di partire per il fronte. Gennaro Valerio prese coscienza di essere stato miracolato. Dall’alto la benigna mano del martire era discesa a proteggerlo. I suoi commilitoni avevano perso la vita su quel campo di battaglia. Forse perché già maturi per il cielo. O perché tale sacrificio era necessario ad un bene più grande come la salvezza delle loro anime. O, in definitiva, per un misterioso decreto dall’infinita sapienza di Dio. La stessa sapienza aveva permesso l’intervento del suo patrono e lui era stato risparmiato.

Terminato il conflitto, il caporale Valerio tornò al paese e trascorse il resto dei suoi lunghi anni come un segnato dal soprannaturale. Il compianto arciprete turese mons. Vito Ingellis lo ricordava come un buon cristiano, marito esemplare ed ottimo padre di famiglia, presente ogni giorno alla celebrazione eucaristica e devoto zelante della Vergine Addolorata. Pur essendo poverissimo, riuscì a mettere da parte la somma (considerevole per l’epoca) di cinquecento lire: voleva infatti eternare con un degno ex voto il miracolo che lo aveva favorito. Fece così erigere nei pressi della sacra grotta di Turi, lungo la via per Rutigliano, il solenne monumento a Sant’Oronzo che, ancora oggi, si ammira. La bella e ieratica statua del santo vescovo benedicente fu realizzata in pietra di Carovigno dallo scultore putignanese Giuseppe de Luca. Mentre sul pilastro che la sorregge, adorno dei tipici simboli iconografici oronziani (la palma, il pastorale, la croce, la mitria ed il libro delle Scritture) è possibile leggere l’iscrizione: “Protegam urbem hanc et salvabo eam”, “Proteggerò e salverò questa città”.       

                                                                                                                                       

 

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