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Ha superato la soglia dei settanta da un pezzo. Ma servire per lui è una vocazione. E la vocazione non passa mai. Ora Piero Della Ducata (e chi non lo conosce a Lecce!) coordina la mensa Caritas di Santa Rosa e ad essa dedica gran parte del suo tempo. Alle spalle una lunga storia… d’amore per Cristo, gli ammalati, i poveri…

Chi è Piero Della Ducata?

Piero Della Ducata è, semplicemente, quell’uomo che ha colto un invito a cena di un santo uomo, prete, don Vito De Grisantis, a casa di un amico facente parte del Consiglio pastorale. Ho accettato in maniera molto spontanea, quasi ingenua, perché era il parroco di Santa Rosa. Non l’avessi mai fatto!

 

Perché?

Perché è iniziato un percorso che mi ha totalmente coinvolto, partendo dal lontano 1978 quando pensammo di fare un’indagine su tutta la parrocchia per conoscere le necessità di alcune famiglie in autentico stato di bisogno. Di conseguenza dal 1978 al 1980 iniziai ad andare in giro a ritirare un’infinità di documenti dai vari uffici e di indumenti usati; tutto ciò, e questa cosa non l’ho mai detta a nessuno, ci ha portato all’acquisto di undici scaldabagni e sette lavatrici per famiglie in seria difficoltà. Nel 1981, in parrocchia partecipai a degli incontri di formazione del cammino neocatecumenale, sempre in uno stato di obbedienza silenziosa, quasi incredulo. Nacque la prima comunità sotto la mia responsabilità. Siamo ancora a Pasqua del 1981.

 

E poi cosa è successo ancora?

A maggio don Vito mi portò a Catania per partecipare a degli incontri nazionali delle Ceb, comunità ecclesiali di base. Poi mi portò pure a Collevalenza per l’incontro nazionale della Caritas. Da quel giorno diventai responsabile della Caritas della mia parrocchia e, ahimè, in parte anche di altre parrocchie. A giugno dello stesso anno, sempre don Vito, mi propose di fare insieme un ritiro spirituale a Lourdes. Per me era fantascienza! Nonostante la mia iniziale resistenza e titubanza, accettai anche questo andare.  La mamma di don Vito, per noi mamma Angela, saggia e santa donna, aveva compreso le intuizioni del figlio, “chissà cosa ha in testa per te questo figlio mio” mi diceva! La sua fu davvero una profezia!

 

In che senso?

Perché da qual giorno decisi di andare a Lourdes solo alla condizione di poter lavorare. Vidi un fiume di sofferenza, di carrozzine, di ammalati. Da Lecce non partiva ancora il treno dell’Unitalsi. Contattai la responsabile del nostro territorio, Luisa Capoccia di San Cesario, un’infermiera e brava donna. Nel 1982 e nel 1983 accompagnai gli ammalati a Taranto e finalmente nel 1984 partì da Lecce il primo treno Unitalsi, sotto la mia direzione!

 

Tanti impegni e responsabilità?

Sono veramente stanco! Di tanti impegni, quasi assurdi. A volte mi dico “ddu santu prete sera pututu stare a casa soa”.

 

Lourdes è stata la meta della fede per lei?

Alla base c’era già un cammino che mi aveva portato a incontrare Dio. A Lecce, prima di recarmi a Lourdes, avevo conosciuto tre ammalati, che ho sempre considerato la passione, la crocifissione e la resurrezione di Cristo. Un ragazzo da oltre vent’anni soffriva di sclerosi a placche e viveva immobilizzato nel letto, una continua peregrinatio di passione; il secondo, un ragazzo, era barellato con le braccia aperte e i piedi uno sopra l’altro, la crocifissione quindi; il terzo ammalato sempre di sclerosi a placche, la resurrezione, morì nel giorno di Santo Stefano: fu il primo funerale celebrato dal giovane don Damiano Madaro. Quest’ultimo ammalato era passato da una serie di religioni, dai mormoni a tante altre sino alla massoneria. Per quarant’anni aveva vissuto questo intenso percorso spirituale alla ricerca della verità assoluta. Un anno lo accompagnai a Lourdes e di notte chiese di un prete per la confessione. In punto di morte mi confidò di essere felice per aver incontrato Dio.

 

Queste tre persone sono state per lei un punto di riferimento, quindi?

Sì, le porto sempre con me, nella mia mente e nel mio cuore, sono per me come un memoriale. Il ragazzo, Gaetano, che ho definito la crocifissione, è stato anche il padrino di Battesimo dell’ultima mia figlia ed ha molto gioito per questo. Non posso assolutamente sentire dire che un ammalato non capisca nulla. Certamente molti ammalati non possono avere il senso dell’equilibrio, del vocabolo o del termine corretto, ma ci superano nel cuore! Non parlano con la voce, ma parlano con il loro cuore! Partecipano in maniera profonda alla messa concelebrandola, lo si vede!

 

E altre sue esperienze?

Certo, il  Centro “Matteo 25”. L’Unitalsi l’ho portata successivamente nella vecchia chiesetta di Santa Rosa. Il Centro “Matteo 25” ne ha fatte di cotte e di crude dal 1978. Allora era direttore della Caritas diocesana don Gaetano Tornese. Due le alternative nella denominazione, Centro “Matteo 25” o Il buon Samaritano. Io optai per la prima, perché la gente poteva porsi la domanda sul significato, indirettamente condizionati, quindi, ad andarne alla ricerca. Il centro ha da sempre avuto particolare attenzione per chi viveva situazioni di disabilità o povertà. Tante le attività di coinvolgimento interne per l’autogestione. “Forza venite gente”, un musical che ha avuto come attori protagonisti gli ammalati e che abbiamo portato in giro per la provincia di Lecce e non solo. Siamo stati anche a Lourdes e ad Assisi! L’anno scorso abbiamo concluso con la Via crucis rappresentata, come tutti gli anni, dagli ammalati: Gesù, per esempio, è stato  interpretato da un ragazzo autistico, che non parlava, ma si esprimeva comunque meravigliosamente.

 

E in cantiere quali progetti ci sono?

C’è in cantiere un altro progetto, nuovo per quanto ci riguarda. L’ho visto per la prima volta a Lourdes. Il tema “Fate quello che Lui vi dirà”, con sfondo lourdiano, con riferimento a Santa Bernardette. Io intendo dare esclusivamente un indirizzo mariano, ripercorrendo sette stagioni, dall’Annunciazione sino alle nozze di Cana. È in fase di allestimento, perché devo trovare ancora almeno una ventina di giovani. Gli ammalati già ci sono per i loro ruoli.

 

Centro “Matteo 25”, Unitalsi e Caritas!

Tutto è fondato come Caritas, tutto è Caritas. Caritas vissuta nella diocesi e prevalentemente nella parrocchia.

 

Per lei che ha così tanta esperienza, chi sono i poveri di oggi?

Sì,  ho conosciuto un’infinità di persone e di esperienze.  Dalla droga alla gente alcolista agli ex- carcerati. A mio avviso, una delle povertà ancora vigenti è la carenza di una cultura di aiuto, di sostegno, di accoglienza e di condivisione. Non abbiamo ancora questa cultura, che non si esaurisce solo nel dare qualcosa. La provvidenza offerta da molti va condivisa con amore, da fratelli, con tutti. Tutti siamo figli di Dio, al di là delle varie modalità di vita, sgangherate, disordinate. La povertà più grande è la nostra che accogliamo, ma non abbiamo la capacità e gli strumenti per condividere non il male che vive questa gente, ma il bene. Va sostenuta la cultura dell’uomo, non del colore di appartenenza, del politico che gestisce o del cristiano, tra virgolette, dal segno della croce la mattina e basta. Una delle povertà più pesanti e gravi è la carenza della capacità di condivisione con l’altro, ogni altro. È facile dare un pezzo di pane. Insegna un detto cinese: “dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. Bisogna accogliere e sapere accogliere!

 

Cosa intende per carità?

La carità, esposta alla luce del sole, perde il suo significato. Potrebbe essere protagonismo, buonismo, ma non carità. Le persone bisognose sono talmente riservate che spesso hanno timore a chiedere. In una busta si può mettere di tutto, ma, innanzitutto, va messo il cuore. Forse, spesso, viene meno il cuore. Sul terzo pulmino degli ammalati da noi acquistato ho fatto scrivere: “porgete oggi la mano al povero ammalato e troverete domani la mano di Dio nella vostra”.

 

Una forte attenzione verso gli ammalati…

Qualcuno mi dice di essere maniacale nei confronti degli ammalati.  Noto che manchiamo di cuore, pur avendo la buona volontà. Mia moglie… come mai non mi ha fatto la domanda su mia moglie?

 

E sua moglie?

La colpa di tutto questo è sua, di mia moglie Anna. Dall’inizio ha portato don Vito a parlare direttamente con me, come se sapesse. Lei ha sempre frequentato con me il cammino neocatecumenale per trent’anni e partecipa attivamente ad ogni iniziativa.

 

 

Come ha potuto conciliare questi impegni con la famiglia?

Fino ad un certo punto anche le mie figlie hanno partecipato a questo cammino di fede, condividendo le nostre esperienze. Mi hanno sempre accompagnato in questo percorso.

 

E il lavoro?

Nel 2000 sono andato in pensione per mia richiesta anticipata di due anni, proprio per dedicarmi, sempre come Unitalsi, ad una casa di accoglienza che mi fu data, per quindici anni, in uso gratuito. Il motto della gratuità è nel mio cuore. Sono stati acquistati tre pulmini per i disabili, senza incidere sulle casse della parrocchia.  La generosità della gente è smisurata, ma devi garantire i segni. E noi qualche segno lo abbiamo dato e la gente li ha visti.

 

La fede? Quanto è stata importante nel suo percorso?

La fede è tutto. Tutto si può fare, con la fede.  A marzo compio 77 anni. Tutto quello che di buono ho fatto nella mia vita è frutto del credere  e della una credibilità che si riesce  a dare alla gente. Il mondo ha bisogno di segni concreti. Nelle parrocchie ci stanno credenti, ma spesso non siamo credibili. C’è scristianizzazione. C’è culto, ma non c’ è fede. Non basta recitare il rosario due o tre volte al giorno, ma è necessario aprirsi all’altro, “l’uomo deve incontrare l’altro uomo”. Una persona va accompagnata sino alla fine, nonostante tutto.

 

E i giovani come rispondono a queste iniziative?

Molti giovani, non tutti ovviamente, purtroppo sono attratti da tutto ciò che è futile, dal niente che fa molto chiasso. Bisogna avere la possibilità di fermarsi e di parlare con la gente e far rinascere il germoglio di quel bambino che è nato a Natale. Altrimenti nulla ha un senso. Celebrare il Natale, festeggiarlo e amen non serve a nulla.  Nel passato, al tempo di mia nonna, c’era una buona ignoranza, oggi c’è una grande ignoranza che distrugge il bene. Al mondo mancano le persone che hanno il coraggio di ‘perdere la faccia’, nascondendosi, invece, dietro perbenismo o al  buonismo.

 

Come vede il futuro?

Mi auguro che si attui quel detto “oggi più di ieri e meno di domani”, guardare avanti con la consapevolezza che si è piccoli e poveri e che l’altro lo si arricchisce attraverso la condivisione della propria esperienza, indistintamente dalla razza, dal colore.

 

La famiglia oggi?

Bisogna far crescere fra i giovani il senso della famiglia, che è grande responsabilità a favore dell’altro. Spesso oggi il discorso famiglia è approssimativo. Si sta insieme, spesso si convive e prima di arrivare al matrimonio sacramento ci si lascia. Perché? Non c’è, a mio avviso, un’educazione all’amore profondo, che non va confuso col sesso. Già nelle famiglie o nelle scuole perché non parlare di un possibile rapporto di valutazione, di crescita, di conoscenza dell’altro nell’intimo del cuore. Bisogna lavorare su di un sentimento sano. Anche nel passato, negli anni ’40 o ’50, ci sono stati errori di percorsi, ma almeno dettavano vergogna. Oggi appare tutto normale. Siamo in un’epoca di svolta, bisogna attrezzarsi di bene per sconfiggere il male.

 

Ai lettori di Portalecce, a chi leggerà la sua intervista, cosa vorrebbe dire?

Di imparare a sperare un po' di più. La speranza si dice semplicisticamente è l’ultima a morire. La speranza va incontrata perché si fa incontrare nei momenti più delicati della propria storia. E quando la si incontra va presa per mano. Tre sono le cose grandi, la fede, la speranza e la carità. La speranza tiene la mano destra all’una e la mano sinistra all’altra, accompagnando, quindi, sia la fede sia la carità.

 

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