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Ai tempi di Teresa, ragazza e poi giovane monaca, circolavano molte pie “immaginette” destinate ad infervorare i credenti, a far loro comprendere il messaggio evangelico e a stimolarli ad una vita che concretamente potesse annunziarlo. Se ne sono conservate molte e l’immaginario sotteso, come pure la postura di fede tipica dell’epoca, balza evidente a chi le osservi.

 

 

 

L’Altissimo, il Padre, il Dio creatore, canuto e barbuto, campeggiava in alto sulle nubi, sovrastando un paesaggio sottostante in cui si intravvedeva una costruzione che rimandava ad un monastero e su cui Egli guardava.
Ecco, fin qui… può anche andare… tuttavia nelle mani di questo Padre si stagliavano dei lampi, dei fulmini che stava scagliando. Dove? Proprio sul monastero. Così veniva espressa la vita carmelitana: le monache erano dei parafulmini che accettavano di essere colpite dall’ira di Dio per scontare i peccati propri e altrui.

Teresa non conosceva un Padre così proposto. Rifletteva e lo ascoltava. Iniziò così la grande rivoluzione teologica che avrebbe segnato non solo il suo proprio esistere di donna monaca ma quello della Chiesa e di quella dottrina che consegnò nei suoi scritti per i quali, oltre che per il suo esemplare esempio di santità, venne nominata Dottore della Chiesa.
Elisabetta Rasy sostiene che per la giovane normanna: “Era un dio da camera quello che apparve a Teresa fin dalle prime luci della memoria, un dio addomesticato e asservito alla ritualità casalinga e paesana, un dio senza terrore e senza orrore, dunque un dio senza speranza”.

Il Dio che Teresa ricevette in dono dai suoi santi genitori invece era il Padre sempre pronto ad accogliere, sempre pronto a perdonare. La confidenza, la certezza di essere cercati ed amati prevaleva nel suo sentire il buon Dio:
“A me Egli ha donato la sua Misericordia infinita ed è attraverso essa che contemplo ed adoro le altre perfezioni divine! Allora tutte mi appaiono raggianti d’amore, perfino la Giustizia (e forse più di ogni altra) mi sembra rivestita d’amore”.
La teologia, cioè il pensiero riflesso sulla fede, acquista una tonalità che non potrà mai più dimenticare. La giovane monaca non ha mai studiato teologia sui banchi delle Università ma ha sempre scrutato la Parola, ne è rimasta affascinata e si è posta in ascolto.

Non ha timore della sua natura umana, così fragile come quella di ogni persona che, con grande fatica, si accetta e tenta di muoversi nel gioco della vita. Non viene assalita da sgomento e timore, tutto il registro muta:

“Che dolce pensare che il Buon Dio è giusto, cioè che tiene conto delle nostre debolezze, che conosce perfettamente la fragilità della nostra natura. Di che cosa dunque dovrei avere paura? Ah! Il Dio infinitamente giusto che si degnò di perdonare con tanta bontà tutte le colpe del figliol prodigo, non deve forse essere giusto verso di me che ‘sono sempre con Lui’?”.

Questo il preciso contesto in cui leggere e custodire l’Atto di offerta all’Amore misericordioso. Vi troviamo anche una parola che può far sussultare la “vittima” e far riaffiorare l’immagine truce del Dio vendicatore.
L’olocausto è un soave profumo, un gesto di consegna amorosa, non un atto brutale: “Offerta di me stessa come vittima d’olocausto all’Amore misericordioso del buon Dio mio Dio! Trinità beata, desidero amarvi e farvi amare, lavorare per la glorificazione della santa Chiesa, salvando le anime che sono sulla terra e liberando quelle che sono nel purgatorio. Desidero compiere perfettamente la vostra volontà e arrivare al grado di gloria che m’avete preparato nel vostro regno. In una parola, desidero essere santa, ma sento la mia impotenza e vi domando, o mio Dio, di essere voi stesso la mia santità. Poichè mi avete amata fino a darmi il vostro unico Figlio perchè fosse il mio salvatore e il mio sposo, i tesori infiniti dei suoi meriti appartengono a me ed io ve li offro con gioia, supplicandovi di non guardare a me se non attraverso il volto di Gesù e nel suo cuore bruciante d’amore”.

 

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