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Ieri mons. Adolfo Putignano ha celebrato il suo cinquantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale, anche se la solenne messa giubilare presieduta dall’arcivescovo Michele Seccia si svolgerà stasera a Lecce nella basilica di Santa Croce alle 19; domattina, invece, alle 11 in cattedrale presiederà egli stesso una eucarestia di ringraziamento.  

 

 

Ma questi sono per lui anche i giorni della memoria e dei ricordi: in breve, un viaggio tra le emozioni e nelle tante storie che fanno parte della sua vicenda personale.

 

Don Adolfo, cinquant’anni di sacerdozio: qual è il tuo personale bilancio di questo mezzo secolo da prete?

Un intenso senso di gratitudine. Innanzi tutto, per la vita, con situazioni facili e difficoltose, vissute sempre con la certezza di poter contare in ogni momento sull’aiuto divino, l’affetto dei miei cari, tante persone buone che mi hanno sempre donato tanta amicizia ed affetto. Non dimentico, nello stesso tempo, verificando la mia coscienza, i miei difetti a livello caratteriale, i limiti delle mie capacità, le incoerenze tra la Parola accolta ed annunciata e la quotidianità, gli errori nelle scelte e nei comportamenti, per cui il Signore sa che ho bisogno di affidarmi alla Misericordia Divina. Molto.

 

Cosa ricordi del giorno dell’ordinazione? Emozioni, aneddoti, particolari che sono rimasti incisi nella tua mente.

Ero proprio giovanissimo: 23 anni! Avevo iniziato le elementari a cinque anni ed ero stato il più piccolo nel seminario leccese ed in quello di Molfetta, frequentato da 374 seminaristi. Ci fu bisogno quindi di una dispensa per l’ordinazione. Avevo tanti sogni riguardo al futuro della Chiesa, che cominciava ad attuare la riforma conciliare… Poi ero il primo presbitero ordinato nell’Ausiliatrice di Monteroni, parrocchia che mi accompagnò con speciale esultanza ed un coinvolgimento comunitario straordinario. C’era nella gente, un rione relativamente nuovo, tanto entusiastico coinvolgimento. Un piccolo aneddoto: alcuni volontari, a mia insaputa, lavorarono molta parte della notte per confezionare un grande calice con molti fiori da sistemare al centro del presbiterio…


Quando e come hai compreso che il tuo cammino di vita era il sacerdozio?

Chierichetto da piccolo, rimasi certamente affascinato dallo zelo e dall’operatività di sacerdoti che in quegli anni costruivano nuove chiese, un oratorio, centri parrocchiali e si impegnavano tanto per i fanciulli, i giovani, la comunità. Ricordo, erano proprio altri tempi, che a casa giocavo con altri ragazzi a celebrare messa.

  
Il momento più bello, quello che più ti ha fatto emozionare, e quello più brutto, che ricordi con dolore e dispiacere. Ci sono stati momenti in cui a prevalere sono stati i dubbi, le perplessità, le incertezze, lo sconforto? Come sono stati superati?

Tanti, tantissimi i momenti belli. Con intense soddisfazioni, umane e pastorali… l’entusiasmo per le marce della pace, i “carnevali controcorrente”, i campeggi sulle Dolomiti, il primo giorno di insegnamento, a 23 anni, nell’attuale liceo artistico, la pubblicazione di due volumi di storia dopo vent’anni di ricerca, la medaglia d’argento alla gara nazionale del sonetto nel 1971, i nuovi gruppi giovanili… Un forte momento di dolore fu quando, già a Milano per motivi di salute, mi dissero di prendere l’aereo poiché improvvisamente era morto papà. Certamente, ci sono stati, pure momenti, in cui ho domandato: “Signore, dove sei?”. Soprattutto, nella vita pastorale, dinanzi a sofferenze di bambini o ad alcuni eventi drammatici. La ricerca di Dio è una costante nella mia vita.


Da mons. Minerva, che ti ha ordinato sacerdote, a mons. Mincuzzi, da mons. Ruppi a mons. D’Ambrosio e ora mons. Seccia. Cinque vescovi sul tuo percorso. Il tuo ricordo per ciascuno di loro.

Non lo dico per piaggeria, l’ho sempre comunicato a tutti con convinzione. Ho amato e servito con gioia la Chiesa e la Chiesa di Lecce con i suoi vescovi. A loro devo tanto. mons. Minerva, il grande organizzatore della diocesi dopo la guerra mondiale, mi affidò, ancora giovanissimo il compito di rilanciare come direttore il settimanale diocesano; mons. Mincuzzi, presule profeta degli ultimi, mi volle pure parroco; mons. Ruppi, tanto poliedrico e dinamico, mi conosceva da studente e mi fu particolarmente vicino in tante attività; mons. D’Ambrosio, proprio ieri mi ha scritto: “Grazie per la tua fedeltà, per il tuo obbediente ascolto, per il generoso servizio pastorale”; mons. Seccia mi ha voluto collaboratore per la cattedrale e la basilica di Santa Croce, canonico, direttore dell’Archivio storico diocesano e della Rivista diocesana. E a lui sono anche molto grato perché oggi presiede la celebrazione eucaristica del mio giubileo, mentre colgo l’occasione per formulargli vivissimi auguri per il suo prossimo venticinquesimo di episcopato.

 

Prete, ma anche giornalista iscritto all'Ordine da più di 40 anni. Direttore e poi editorialista de L’Ora del Salento, fondatore di Vita cristiana ma anche, da giovane, corrispondente di Avvenire. E poi, l’incarico, come direttore dell’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali. Un lungo corso quindi tra la carta stampata e il mondo dell’informazione. Come è stata e com’è l’esperienza del prete-giornalista?

Scrivere e comunicare con i media è molto impegnativo e faticoso. Ma mi è sempre piaciuto. Tanto. Il mio primo articolo, che conservo gelosamente, lo pubblicai nell’aprile 1968 sul quindicinale regionale “Miles Christi”, periodico del quale divenni caporedattore, collaborando attivamente a rinnovarlo. Avverto profondamente l’importanza culturale per cui sono impegnato nell’Istituto superiore di scienze religiose ed opero nella pastorale dei mass media all’interno dell’attuale civiltà massmediale. Nelle prossime settimane, uscirà un altro mio volume sulle sfide della comunicazione sociale. Quante notti ho trascorso scrivendo!


In questo mezzo secolo c’è stata la lunghissima parentesi da parroco: ben 35 anni a Monteroni. Prima all’Ausiliatrice, la tua comunità di origine, e poi la trentennale esperienza in Chiesa Madre. Che significa e cosa ti ha trasmesso la missione come parroco in una realtà bella ma anche delicata come quella di Monteroni?

È stata una lunga storia di amore, che conservo gelosamente nel cuore, per la quale ringrazio intensamente Dio e la popolazione, da me amata intensamente e dalla quale ho ricevuto benevolenza, collaborazione, sempre nuovi stimoli a costruire insieme la comunità. È noto a tutti il mio invito, unito a concreto impulso, a costruire quella che usavo chiamare la ’Monteroni bella’. Cioè una città che, valorizzando le sue antiche e nuove risorse di cultura, religiosità, laboriosità, solidarietà con tanto volontariato, riesce a sviluppare un mirabile modello di comunione e quindi di comunità. Ho vissuto anni intensissimi, rimanendo molto colpito dalla disponibilità di tantissimi monteronesi, per cui, non per pura formalità occasionale, coltivo tanta speranza… Mia amata città natale!

 

 

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