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È il 10 maggio 1071 quando alcuni tagliapietre intenti alla riedificazione della cattedrale di Taranto, distrutta in precedenza da una scorreria saracena, compiono una singolare scoperta. All’improvviso, il piccone urta contro una lastra lapidea: si tratta di un sepolcro interrato e dimenticato, dal quale tuttavia proviene un misterioso profumo.

Stupefatti, decidono, con timore misto a venerazione, di aprire il sarcofago. In quella tomba riposano i sacri resti del vescovo Cataldo, riconoscibili per una croce aurea di cui sono adorni e sulla quale è inciso il suo nome. Alla notizia di quella inventio, l’intero popolo di Taranto accorre a pregare dinanzi al tumulo. Fioriscono i miracoli e la fama del grande santo della città ionica si diffonde per le contrade pugliesi, calabre e sicule.

Questa, in breve, l’entusiasmate vicenda del culto di San Cataldo di Rachau (VII sec.) che è storia sacra per ogni tarantino. Ma lo è anche per ogni fedele della marina leccese che dal santo trae la propria toponomastica. Come ricorda il parroco don Corrado Serafino nel suo pregevole volume “Cataldus, il santo della marina”, la stupenda figura del vescovo taumaturgo rende davvero sorelle le chiese di Taranto e Lecce. Un legame che diverrà ancora più tangibile domani 28 luglio quando si rinnoveranno i suggestivi festeggiamenti per il patrocinio di San Cataldo sulla nostra marina. Proseguendo un’ormai consolidata tradizione, la bella statua del patrono sarà ancora una volta condotta in mare e le acque verranno benedette con la sacra reliquia, autentico tesoro della locale parrocchia e segno concreto della benefica presenza del santo nel nostro territorio.

Il rito di fatto rende partecipi i fedeli leccesi di una devozione strettamente connessa con il mare. Del resto, la stessa vicenda agiografica del patrono sembra svilupparsi lungo linee marittime capaci di collegare addirittura l’Atlantico al Mediterraneo Orientale ed ai lidi salentini. Cataldo è infatti un monaco irlandese, con ogni probabilità originario della regione di Waterford, nel sud dell’isola. Il suo vero nome dovrebbe essere Cathal o Cahill (quest’ultimo è diffuso, quale cognome, anche tra gli emigrati irlandesi in America). Assunto il governo del grande monastero di Lismore, si distinse come maestro spirituale ma dovette sperimentare anche incomprensioni e contrasti che lo portarono a subire un’ingiusta prigionia. Liberato, a detta dei suoi biografi in modo miracoloso, intraprese un pellegrinaggio in Terra Santa. Fu proprio mentre sostava, raccolto in preghiera, nel Santo Sepolcro di Gerusalemme che avrebbe udito la voce di Cristo che gli ordinava di raggiungere Taranto al fine di rievangelizzarla, perché ricaduta nel paganesimo: “Vade Tarentum!”, “Recati a Taranto!”.

Sollecito ai comandi divini, dalla Palestina sarebbe sbarcato sul litorale leccese e, una volta giunto nella città ionica, ne avrebbe assunto l’episcopato, divenendo l’autentico fondatore della nuova Taranto cristiana. Certo, molto si è studiato e molto ci sarebbe ancora da indagare, da approfondire, da verificare in merito a questo racconto agiografico, riportato dal giurista Berlingero da Taranto (XII sec.) nella Vita e Historia inventionis corporis S. Cataldi. Senza dubbio però dal suo cappellone nel duomo ionico alla parrocchia della marina leccese, San Cataldo continua a far risplendere la fiaccola della fede cristiana per i suoi figli.          

                                                                                                                          

 

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