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Portalecce offre all'attenzione dei suoi lettori il testo integrale dell'omelia che il card. Marcello Semeraro ha pronunciato ieri durante il pontificale presieduto ieri mattina nella cattedrale di Lecce.

 

 

 

 

 

1. Questa celebrazione mi commuove vivamente: per il luogo dove si svolge, ossia la chiesa madre della Chiesa particolare di Lecce, dove sono divenuto presbitero e sono stato ordinato vescovo; per la presenza di tutti voi, tra i quali rivedo volti cari ed amici. Il saluto liturgico della pace è pure il mio personale saluto. Lo rivolgo anzitutto all’arcivescovo Michele Seccia che, con l’intuito della fraternità, ha voluto quest’assemblea liturgica; lo ringrazio anche per le benevole, iniziali parole di saluto e per l’amicizia con cui ha reso partecipe l’intera diocesi di quanto mi è accaduto in questi due mesi. Saluto di cuore i fratelli arcivescovi e vescovi concelebranti: di ciascuno conservo un ricordo, che alimenta l’antica amicizia. Se mi ci soffermassi, non terminerei questa omelia.

Permettete, tuttavia, che un riferimento speciale lo faccia per gli arcivescovi Donato Negro e Domenico Caliandro, cui ripeto le parole che Gregorio di Nazianzo scrisse riguardo a Basilio: «compagni, commensali, fratelli. Aspiravamo a un medesimo bene e coltivavamo ogni giorno più fervidamente e intimamente il nostro comune ideale» (Disc. 43, 19; PG 36, 520). La presenza, poi, di S. Em. il card. Salvatore De Giorgi mi conforta grandemente. Quando il 10 ottobre 1998 iniziai il ministero episcopale nella Chiesa di Oria, lei, eminenza, che già ne era stato saggio pastore, mi promise: «la nostra fraternità sacramentale troverà nella preghiera quotidiana il momento più espressivo dell’amicizia». In tutti questi anni è stato così per lei e anche per me. Il saluto si estende ai sacerdoti. Per segnalarvi, carissimi, la mia affezione, vi confido che, per i riti del Concistoro, ho scelto di portare come croce pettorale quella d’oro donatami dal clero di Lecce per l’ordinazione episcopale. È divenuta una stauroteca ed anche ora l’indosso.

Porgo, con rispetto e cordialità, il mio saluto a tutte le autorità civili e militari presenti. Dimorando ormai da oltre sedici anni lontano da questa cara terra di Puglia, non ho l’onore di conoscervi tutti di persona; sappiate, però, che per ciascuno c’è la mia stima che, nell’attuale contingenza di pandemia, diventa augurio sincero perché nei vostri diversi compiti siate d’aiuto per la nostra gente perché riesca a uscire dalla paura percorrendo l’unica strada possibile, che si chiama responsabilità e fiducia. Ripeto a voi le stesse parole che riferii alle autorità del territorio della diocesi di Albano l’8 dicembre scorso; sono di don Tonino Bello e le pronunciò a Otranto pochi mesi prima di morire: «Non abbiate paura! Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la tua fede, la tua speranza, la tua carità, ti accorgerai che fuori non c’è nessuno» (Omelia del 14 agosto 1992 ne L’Eco Idruntina LXXIII, sett. ott. 1992, 484).

2. Ci orienta, nel cammino verso il Natale, la parola del Signore il quale a me pare che oggi voglia dirci almeno tre cose. La prima è di lasciarci «costruire» da Lui. Noi siamo, infatti, «casa del Signore» (Ebr 3.6). Abbiamo udito che di «casa» ha parlato a Davide il profeta Natan quando in nome di Dio gli ha detto: «Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti?... Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,5.11). Le intenzioni di Davide erano, forse, delle migliori. Ad esempio, preparare a Dio un’abitazione che non avesse più, come la tenda dei nomadi, le sembianze della provvisorietà … È, però, anche possibile che egli abbia avuto in mente una sorta di sfruttamento del religioso. Volere un Dio a servizio dei propri progetti è una tentazione sempre in agguato e non soltanto nella Chiesa... Nel racconto biblico che abbiamo ascoltato, però, Dio parla a Davide con misericordia: lo contraddice, ma l’incoraggia pure a inserirsi nei suoi progetti perché «se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (Sl 127,1).

Vi confesso, carissimi, che quest’esperienza l’ho fatta io stesso non poche volte e con sofferenza, fino a questi giorni. È l’esperienza di tutte le volte in cui mi è stato chiesto di «cambiare strada» per avventurarmi in una nuova via. Per questo, la sera del 29 settembre 1998, nella nostra piazza del Duomo, al termine della mia ordinazione episcopale, quasi dialogando col Signore dissi: «Ti confido che, un po’ come Davide, anch’io avevo sognato di costruirti una “casa” …». Pensavo, infatti, che quella «casa» dovesse essere la cattedra dell’insegnamento; invece, ero chiamato a traslocare su un’altra, quella episcopale. Dopo solo sei anni fui chiamato a una nuova transumanza. Me ne feci una ragione salutando la diocesi di Oria citai questa frase di J. H. Newman, poi canonizzato: «Non siamo chiamati soltanto una volta, ma molte volte; per tutta la nostra vita Cristo ci chiama… siamo tutti continuamente chiamati, sempre di nuovo, da una cosa ad un’altra… e quando obbediamo a un comando, subito ce ne viene dato un altro» (Parochial and Plain Sermons, VIII/2 «Divine Calls»: Longmans, Green and Co., London 1908, 23). Mi avviai, dunque, verso Albano, un po’ sentendomi come Abramo, che per fede «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).

Sedici anni dopo sono stato di nuovo chiamato a operare un distacco. In un colloquio confidai a Francesco: «Non c’è soltanto il dolore di lasciare la diocesi. So bene che a rendere vera una paternità è proprio il “lasciare”. Il distacco, dunque, mi renderà più padre! Mi preoccupa, però, il “ricominciare” alla mia età». A quel punto il Papa mi chiese un po’ sorridendo: «Ed io, a quanti anni ho ricominciato?». Questa domanda, così paterna mi aprì la mente e sollevò il cuore. Mi ricordai che Angelo Giuseppe Roncalli - Giovanni XXIII, informato in via riservata dal Sostituto Giovan Battista Montini che Pio XII lo avrebbe creato cardinale e quindi inviato a Venezia come nuovo Patriarca, scrisse sulla sua agenda: «Ricordo San Giuseppe e lo imito: do un’altra direzione al mio asinello» (Agende del Nunzio, 1949-1953 [14 novembre 1952], Bologna 616).

3. Cosa fa, dunque, un discepolo di Gesù, quando riconosce questo tipo di interventi di Dio nella propria vita? Imita Maria la quale dice alla fine: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». Questo «eccomi», che compare nella storia della salvezza con Abramo (cf. Gen 22,1.11), ha la sua replica nella Vergine di Nazaret e diventa perfetto in Gesù quando nel Getsemani dice al Padre: «Non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39). Questo «eccomi», ha detto una volta il Papa, «è la parola-chiave della vita. Segna il passaggio da una vita orizzontale, centrata su di sé e sui propri bisogni, a una vita verticale, slanciata verso Dio. Eccomi è essere disponibili al Signore, è la cura per l’egoismo, è l’antidoto a una vita insoddisfatta, a cui manca sempre qualcosa. Eccomi è il rimedio contro l’invecchiamento del peccato, è la terapia per restare giovani dentro. Eccomi è credere che Dio conta più del mio io. È scegliere di scommettere sul Signore, docili alle sue sorprese. Perciò dirgli eccomi è la lode più grande che possiamo offrirgli» (Angelus dell’8 dicembre 2018).

Il racconto del vangelo che abbiamo ascoltato si conclude così: «L’angelo si allontanò da lei» (Lc 1,38). A Maria Dio fa un dono, ma senza lasciarle il libretto delle istruzioni! L’angelo vola verso il cielo e lei rimane sulla terra, sola col mistero della sua maternità. Che fare? A chi dirlo? Come dirlo? Sì, noi diciamo che occorre vivere di fede… il come, però, è lasciato a noi, alla nostra creatività, perfino, perché Dio ci lascia sempre liberi. Vivere di fede non vuol dire avere la ricetta per i problemi, ma cercare ogni volta una risposta personale, considerando gli stili di Dio e cogliendo le interpellanze della storia. Questo, in ultima analisi, è la santità ed è la ragione per cui ogni santo ce ne mostra un volto diverso. Un buon esempio ci viene proprio da Maria la quale, come annotava il Venerabile Beda, mentre l’angelo se ne tornava in cielo, cercò una via tra le montagne: angelus coelestia repetit, illa petit montana. Ed è così – conclude – che, quando si è accolta la parola di Dio, la prima cosa da fare è scalare le vette dell’amore (cf. In Ev. Lucae I: PL 92,320). Tutto, dunque, alla fine si risolve nella carità.

«Siamo servi inutili ci ha insegnato di dire il Signore dopo avere fatto il nostro lavoro», mi ha scritto il Papa, il giorno dopo avere pubblicato la mia nomina a cardinale, aggiungendo: «non pretendere altra ricompensa: ti basta questa e la grazia di essere eletto per servire».

 

Photogallery di Arturo Caprioli

 

 

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