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La cartapesta leccese oggi è ormai nota, riconosciuta ed apprezzata anche a livello internazionale. Il sentimento universalmente diffuso è quello di considerarla come uno dei tesori locali da custodire e tramandare.

 Anche se forse si fa ancora troppo poco per preservarla e promuoverla come invece meriterebbe.

Eppure vi fu un tempo in cui questo nitido emblema della salentinità, rischiò davvero di fare naufragio e sparire del tutto. Si tratta di una pagina dolorosa delle vicende del nostro territorio messa bene in risalto dallo storico Mario de Marco nel suo saggio La cartapesta leccese.

La burrasca che si abbatté sui mastri cartapestai fu alquanto inaspettata perché si sollevò proprio mentre era in corso uno dei periodi di massimo splendore di tale statuaria, i primi decenni del Novecento, epoca in cui artisti come Giuseppe Manzo, Salvatore Sacquegna e Luigi Guacci si trovavano nel pieno della loro produzione.

A scatenare una lotta senza quartiere alla cartapesta fu l’arcivescovo di Otranto, Sebastiano Cornelio Cuccarollo (1870-1963) che, in una lettera indirizzata alla Pontificia Commissione per l’arte sacra in Italia, redatta agli inizi degli anni ’30 e presto divenuta una sorta di circolare nelle diocesi pugliesi, espresse un totale disgusto verso una modalità figurativa che riteneva povera e indegna di rappresentare soggetti religiosi. Mons. Cuccarollo considerava idonei per le immagini di culto solo materiali più “nobili” come il legno o il marmo ma soprattutto accusava i cartapestai di sacrilegio: questi infatti, per le loro opere, avrebbero anche potuto servirsi di fogli di giornali scomunicati, come L’Avanti e L’Unità, o addirittura di strumenti di peccato, come stampe oscene o carte da gioco. Il pensiero del vescovo ebbe una grande eco e venne condiviso anche da Giovanni Papini. Fu così che nel Salento sembrò risorgere l’iconoclastia: le statue in cartapesta iniziarono ad essere distrutte e diverse botteghe furono costrette a chiudere. Nella diocesi di Lecce si ebbero effetti più limitati grazie alla ferma linea seguita da mons. Alberto Costa a tutela dell’arte ma i danni non mancarono.

Ciò che stupisce dell’intera vicenda è però proprio la personalità del presule idruntino. Il vescovo Cuccarollo non era un invasato né uno sprovveduto. Veniva dall’ordine dei Cappuccini, era stato compagno di San Leopoldo Mandić e, come il celebre pastore di Treviso mons. Giacinto Longhin, non smise mai di difendere a spada tratta Padre Pio da Pietrelcina. Durante la Grande Guerra si era distinto per l’assistenza offerta ai feriti ed ai prigionieri e, prima di sedere sulla cattedra della città dei martiri, aveva guidato la diocesi di Bovino con grande zelo. Tuttavia è plausibile che certi eccessi di impulsività, connaturati al suo carattere, lo portassero a volte ad intraprendere scelte pastorali discutibili. Nella disputa sulla cartapesta, per di più, le sue origini venete e dunque la sua provenienza da un contesto molto diverso da quello pugliese, certo non potevano favorire una comprensione (e tanto meno un apprezzamento) di determinate realtà della cultura locale. La salvezza della cartapesta fu quindi dovuta al prof. Corrado Mezzana, qualificato estimatore di quest’arte salentina, ed a Pio XII che non mancò di esprimere la propria stima verso i cartapestai nel suo famoso Radiomessaggio alla città di Lecce, visibile ancora oggi sulla facciata di Palazzo Carafa.                                                                                                                                                                

 

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