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L’11 marzo 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarava la pandemia, solo la sera di due giorni prima l’allora premier Giuseppe Conte annunciava che l’Italia intera sarebbe andata in lockdown il giorno seguente.

 

 

 

A un anno, segnato da oltre centomila morti nel nostro Paese, sofferenza, paura, aumento della povertà e delle fragilità, disagi, riflettiamo insieme con don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, per guardare a quanto abbiamo vissuto e quanto dovremo ancora vivere con uno sguardo ancorato alla realtà ma anche con gli occhi della fede.

Don Maurizio, come ha vissuto quest’anno?

Io da sacerdote mi sono un po’ “difeso”, perché non mi potevo permettere il lusso di cedere: debbo celebrare la messa, dare speranza, sono parroco in un quartiere molto povero che ha risentito pesantemente della pandemia a livello economico. Ora, da un lato c’è la pandemia, con la paura di questo virus invisibile che si nasconde dappertutto, dall’altro lato, è triste anche non poter andare a casa degli ammalati, né poter benedire i morti in casa, per evitare assembramenti. La prospettiva da cui vede un sacerdote tutta questa sofferenza è diversa perché mi rendo conto che per un papà di famiglia pesano la questione economica e il timore del virus. Per noi sacerdoti è differente, ci sono altre preoccupazioni: per esempio, adesso bisognerebbe preparare le prime comunioni, ma dobbiamo pensare anche a tanti fidanzati che vorrebbero sposarsi. Ho avuto una coppia che ha rifatto le carte per il matrimonio per la terza volta: ho suggerito loro di sposarsi lo stesso, anche senza invitati, ma fa una tristezza immensa, avevano sognato questo loro matrimonio da anni. Per tanti poveri il matrimonio rimane, infatti, l’unico momento di festa, di aggregazione familiare.

Un anno che ha portato via anche tanti cari, amici, conoscenti…

Ci sono stati tanti morti della nostra parrocchia, ma celebrare i funerali in quest’anno è stato diverso: alcuni li abbiamo benedetti direttamente al cimitero, una cosa molto triste; nei mesi più sereni, abbiamo benedetto tante salme sul sagrato della chiesa, non potevamo fare entrare le bare perché erano morti di Covid. Tra di loro Carmine, il papà di un nostro sacerdote, che è stato ricoverato quaranta giorni senza poter vedere nessuno. Era un mio collaboratore, lo vedevo tutti i giorni in chiesa, ha fatto tanto per la nostra parrocchia, ora è morto ed è una sofferenza immensa. È stato molto difficile anche essere vicini alle famiglie, i cui componenti spesso erano a loro volta positivi o in quarantena. Da noi, di solito, le persone muoiono a casa e dà grande conforto la preghiera del sacerdote a casa davanti al defunto e con i suoi cari, ma anche questo non è stato possibile, per ovvi motivi. È stato più facile seguire, anche se a distanza, le famiglie che frequentano abitualmente la chiesa; per le altre che non vengono spesso in parrocchia, tranne che per la celebrazione dei sacramenti e i funerali, si è persa questa opportunità di incontro e di accompagnamento.

Adesso la Campania è rientrata in zona rossa.

Sì, da lunedì 8 marzo. C’è la paura del virus, delle varianti, che se continuano a mutare potrebbero rendere vani i vaccini. Poi ci sono questi ragazzi che vogliono vivere, li capisco, ma che rappresentano un pericolo per se stessi e per gli altri.

Ho saputo che negli ospedali di Napoli le terapie intensive sono piene di nuovo ma l’età dei pazienti si è abbassata terribilmente, diversamente a quanto accaduto un anno fa quando il virus colpiva soprattutto i più anziani.

Intanto si avvicina la Settimana Santa…

Non sappiamo cosa faremo, ad esempio, se staremo ancora in queste condizioni. Certamente tutte quelle celebrazioni veramente belle della Domenica delle Palme e la lavanda dei piedi del Giovedì Santo difficilmente si potranno fare.

Un momento che ricorderò, anche quando sarà tutto finito, è la veglia pasquale celebrata davanti a un cellulare, l’anno scorso. Mentre stavo con il cero in mano e venivo ripreso dal telefonino per far partecipare almeno attraverso la diretta on line alla celebrazione, mi venne una tristezza immensa. L’importante è che si lascino le chiese aperte e ci permettano di celebrare con il popolo. Quando c’è stato il lockdown nazionale noi non eravamo preparati per le messe on line, ma nel giro di pochi giorni ci siamo subito adeguati: per me questo è stato bello, vuol dire che ci siamo stati. Questo è il nostro tempo e noi dobbiamo usare la fantasia per arrivare a più persone possibili, al cuore della gente. Le mie messe on line erano seguite da migliaia di persone e i commenti arrivavano da tutta l’Italia. Di questo ho ringraziato il Signore, anche se celebrare davanti a un telefonino era deprimente. Adesso celebrare con il popolo è una gioia grande. Grazie a Dio la mia chiesa è abbastanza ampia e viene tanta gente, ma rimane la paura e il dispiacere di non far entrare altri fedeli perché abbiamo raggiunto il numero massimo possibile rispetto alla capienza. Quella che si sente di più è la mancanza dei bambini. La messa delle dieci era strapiena di piccoli, è un ricordo bellissimo, ma oggi sarebbe un pericolo incredibile che non possiamo correre. Voglio segnalare pure una contraddizione: l’anno scorso chiusero le chiese considerandole pericolose come centro di aggregazione. Adesso, grazie a Dio possiamo celebrare la messa, ma noi parroci celebriamo tante messe, incontriamo tante persone, anche se sempre con tutte le misure di sicurezza possibili: forse sarebbe stato prudente pensare ai sacerdoti come una categoria da vaccinare presto proprio perché ci avviciniamo a tanta gente.

Un anno di Covid significa non solo emergenza sanitaria ma anche sociale…

Purtroppo, ci sono i poveri in aumento. Quando sono scoraggiato grido al Signore, ma in altri momenti penso: che bello, non c’è un ambito in cui la Chiesa non è presente. Mi portano le bollette da pagare, chiedono aiuto e nessuno va via a mani vuote. Su una parrocchia di cinquemila abitanti, abbiamo 400 assistiti che ogni mese vengono a ritirare il pacco del Banco alimentare, ma non basta e allora con i risparmi che ci sono in chiesa compro olio, caffè e altri prodotti per incrementare quello che c’è nel pacco. Il giorno del ritiro dei pacchi la scena che si presenta è talmente triste che chiedo a qualche mio collaboratore di essere presente al mio posto perché io non ce la faccio ad assistere: a volte trascinano il pacco pesante a terra, altri vengono con carrozzine. Da noi arrivano anche i fratelli rom che abitano nei dintorni.

In questi quartieri poveri ci sono tante miserie: c’è ad esempio un senzatetto che dorme su un divano all’aperto fuori dalla parrocchia e non vuole essere ricoverato in Caritas, ma io non riesco a dormire al suo pensiero che resta all’aperto con il freddo. Scacciati dai quartieri bene delle città, trovano rifugio nei quartieri di periferia che sembrano la stalla di Betlemme. In un modo e nell’altro bisogna stare accanto a tutti. Tante volte davanti ai nostri occhi si vedono scene patetiche, ma io dico: laddove il Signore ci vuole noi dobbiamo stare. I problemi erano già tanti ma dire che la pandemia li ha moltiplicati è riduttivo.

Come guardare con gli occhi di fede l’ultimo anno?

È passato già un anno… Certamente, il Signore non ha mandato la pandemia, ma siamo chiamati a leggere i segni dei tempi, adeguarci a quello che ci propone la giornata. Io dico spesso che chiedo al Signore la grazia di essere strabico cioè di avere un occhio che guarda la realtà locale – il mio paese, la mia parrocchia, la mia famiglia, la mia gente, la mia regione, la mia Italia – e un altro occhio che guarda la realtà generale, la politica a livello mondiale. Guai a noi se avessimo solo l’occhio per vedere le cose di casa nostra, ci chiuderemmo nel nostro giardino e faremmo ben poco, ma guai a noi anche se pensando all’umanità tutta dovessimo dimenticare l’uomo reale che ci chiede un pezzo di pane. La pandemia ci ha insegnato qualcosa d’importante: Gesù nel Vangelo ci dice di guardare ai fiori dei campi e agli uccelli nei cieli, noi invece ci siamo aggrappati all’immediato, alla paura del futuro. Sembra quasi che pensiamo di dover vivere su questa terra cinquemila anni, quando invece Gesù ci ha detto di stare pronti con la lampada accesa perché il Signore verrà nel momento che non pensate. La pandemia a livello personale mi ha insegnato a ringraziare il Signore per il dono che mi dà di vivere la giornata di oggi e ad apprezzare quello che abbiamo. Siamo entrati in zona rossa e saremo più limitati di come lo eravamo fino al 7 marzo, ma solo quando siamo entrati in zona rossa abbiamo compreso quello che potevamo fare fino al giorno prima. È quello che avviene anche con l’età e la salute. Poche persone si accorgono della bellezza di avere vent’anni, la comprenderanno a quaranta. Così diamo per scontata la salute quando l’abbiamo, mentre quando ci ammaliamo, capiamo che dono era avere una buona salute. La pandemia ci ha insegnato anche a stare più a casa, a cogliere la bellezza delle persone con cui la condividiamo, a leggere un buon libro. La pandemia ci ha insegnato a stare con noi stessi, una preghiera non comunitaria, ma più importante, quella personale, diventando amici di noi stessi. Prego il Signore di toglierci queste “maschere di Pulcinella” dalla faccia e di farci tornare con il nostro volto solo se riusciamo a essere migliori. Tante volte ho il timore che si sviluppino anche negatività quando le persone sono tanto represse, ma spero che l’umanità abbia imparato la lezione: a dispetto della nostra superbia e del nostro orgoglio, è bastato un virus invisibile per metterci in ginocchio tutti quanti. Anche la diatriba tra scienza e fede non ha senso. Senza un cervello non ci può essere uno scienziato e quel cervello lo ha avuto in dono da Dio.

 

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