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Papa Francesco è ormai nel vivo di quello che tutti definiscono “pellegrinaggio penitenziale”: una settimana per incoraggiare il processo di riconciliazione anche con i popoli indigeni del Canada.

 

 

 

Tutti i viaggi dei papi, oltra ad essere eventi, hanno nell’agenda degli appuntamenti un momento in cui il pontefice si rivolge alle vittime di un’istituzione come la Chiesa che, in maniera involontaria, può aver procurato. Mentre altri viaggi potevano essere rinviati per motivi di salute, il pontefice facendosi portavoce di tutta la Chiesa, consapevoli dei crimini commessi contro gli aborigeni da oltre un secolo e mezzo nelle scuole residenziali gestite dalla Chiesa, sta chiedendo perdono. Non è un’azione inusuale di questo pontificato quella che stiamo vedendo in televisione, ma qualcosa da vedere in continuità con quello che scrive lo stesso papa nei suoi documenti magisteriali sull’evangelizzazione (cf. Evangelii Gaudium e Querida Amazonia) in particolare nella situazione nella quale si trova: come primo papa delle Americhe, sente su di sé il compito del discernimento dell’evangelizzazione e di convertire l'errore fondamentale di confondere quest’ultima con l'assimilazione culturale trasformandolo in un’occasione di riappacificazione. Insomma, l’approccio è uguale ma ancora una volta siamo di fronte, dopo il viaggio in Siria ad un pellegrinaggio sia in senso letterale che figurato: esso sta segnando un cambiamento. Se la Chiesa è autenticamente cattolica, cioè universale, i suoi membri europei devono capire che il Vangelo può radicarsi in culture molto diverse e attuarsi solo in una giusta inculturazione e processo locale.

 

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