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“In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti”.

 

 

Papa Francesco richiama nel suo recente “Il mio presepe” (Piemme) uno degli elementi dimenticati, eppure fondamentali, del nostro essere - non solo fare - Natale: l’origine della tradizione, a partire dal nome, che viene dal termine latino praesepium, mangiatoia. Non ricchezza d’abiti, né figure preziose, ma una semplice greppia, a ricordo di quanto scrive Luca: “Lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.

Nella simbologia medievale, che non era di esclusiva pertinenza dei saggi, ma era entrata a far parte dell’immaginario collettivo grazie anche alla Bibbia dei poveri, gli affreschi delle chiese, il contenitore del fieno divenne una parte di un tutto. Una infima, apparentemente, parte richiamava gli apocrifi asino e bue, e i pastori guidati dall’angelo, e i genitori e poi i magi e tanto altro.

Quando San Francesco visita, non per la prima volta, Greccio, confida al nobile Giovanni, nelle parole di Tommaso da Celano (racchiuse nella Vita Beati Francisci, scritta cinque anni dopo quell’evento): “vorrei fare memoria del bambino nato a Betlemme”. Vuole ricordare quello che apparentemente non c’è in quel presepio. Il Poverello tenta di comunicare la fondamentale importanza della povertà, del posto del fieno, di due animali che scaldano chi non ha nulla per ripararsi dal freddo della notte.

Giovanni Velita ubbidisce: è stato avvisato due settimane prima, e può far preparare la greppia, metterci il fieno (che assume una grande importanza sia in Tommaso da Celano che in Bonaventura da Bagnoregio, per le sue qualità miracolose), portare i due animali, in una, scrive Tommaso, “scena commovente” nella quale “risplende la semplicità evangelica”.
Un gran numero di persone arriva dalle abitazioni e dai casolari della zona, e tutti sono colpiti - e commossi - in un tripudio di ceri e fiaccole da una scena in cui Greccio, piccolo borgo delle montagne dell’alto Lazio “è divenuto una nuova Betlemme”.

La sera del 25 dicembre del 1223, esattamente ottocento anni fa, nasce qualcosa che si è apparentemente trasformato in altro, ma che nasconde l’origine preziosa di una rinuncia, quella del santo di Assisi, a imitazione di una nascita avvenuta non nei castelli, ma in un luogo fuori dalle grandi rotte, e che pure aveva visto nascere Davide. Un re, a precorrere la nascita di un altro e diverso Re che della rinuncia alle ricchezze materiali farà il suo messaggio.
A Greccio ci fu la celebrazione dell’eucarestia, “sul presepio”, scrive Tommaso da Celano, come anche, molti anni dopo, la Legenda Maior, con Francesco rivestito dei paramenti diaconali a cantare il Vangelo. Tutte e due le fonti riportano però qualcosa che ha a che fare con lo spirito e l’immagine del nostro presepe: Nella Vita Prima un uomo virtuoso, senza altre indicazioni, ha “la mirabile visione” di un bambinello dormiente, destato dal suo profondo sonno dal santo stesso. Nelle parole di san Bonaventura è lo stesso Giovanni Velita ad aver visto dormire, anche qui sulla mangiatoia, “un bellissimo bambinello”, stretto poi al petto da san Francesco. Il Bambino è una presenza latente, fondante, visibile con gli occhi del cuore, e che però è alla base di tutto quello che qui avviene.

L’intensità di questa scena di partecipazione popolare, canti, luci, commozione - narrata anche ai bambini con suggestive illustrazioni da Fulvia degl’Innocenti e Manuela Leporesi in “Il primo presepe” (Paoline) - è chiusa dal sigillo del Bambino. Un presepe povero non è solo un presepe, ma il Presepe, fatto con le ferite del cuore, con la speranza di poter far mangiare i figli, o con un cammino di ritorno al poco che salva.

 

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