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In quell’andar per il vasto e tortuoso territorio della storia dell’arte, anche quella contemporanea, accade spesso di imbattersi nelle famiglie, e questo ben oltre ogni possibile e/o reale geografia, intendendo con il termine sopra evidenziato non solo la discendenza diretta da padre in figlio, ma anche quelle progressivamente più allargate, coinvolgendo fratelli, nipoti, parenti -più o meno stretti- ed affini.

 

 

Tale sorta di riflessione, oseremmo dire di ordine artistico/genealogico, si manifesta in tutta la sua verità e la sua consistenza nel momento in cui ci apprestiamo a costruire la sequenza di parole, di periodi e di concetti che costituiscono il nostro testo critico sulla personale di Antonio Pignatelli, a ben guardare il fratello minore di Ercole, il “ragazzo rondine” di carrieriana memoria, ma anche lo zio - il ceppo/radice è lo stesso - dei nipoti Luca, Francesco e Daniele impegnati, rispettivamente, nella pittura, nella fotografia e nel video, ovvero in quelle che possiamo definire gli aspetti tutti dell’ormai espansa ed interdisciplinare creatività contemporanea. Lasciando, però, alla memoria (cui siamo debitori della nostra formazione e del nostro vivere) la possibilità di vagare e quindi di far ri/emergere, a dimostrazione di come sia diffuso il fenomeno, non solo la diramata progènie dei Cascella (ben cinque generazioni dalla metà dell’Ottocento, partendo da Basilio per arrivare a Matteo Basilè), i due Pomodoro: Arnaldo e Giò, Michelangelo Pistoletto con il padre Ettore, gli Alessandri, i Gilardi, e spostando l’occhio in questa terra pugliese e salentina i tre Massari: Michele, Antonio e Annamaria, Raffaele e Francesco Spizzico, Ugo e Vittorio Tapparini, i  Buscicchio, i Vella, ed altri ancora probabilmente.

E rieccoci ad Antonio Pìgnatelli, e a quel suo “fare pittura” di ritorno (avendola esercitata tra gli anni Sessanta e Settanta, e poi accantonata per operare in altre creatività) quanto mai legato alla leggibilità della figurazione, da intendersi quale modalità espressiva mai fine a sé stessa, ma costantemente articolata lungo le molteplici direzioni dei riferimenti, tra soggetti animati/inanimati e possibili oggettualità. Riconoscendole, però, la capacità del recupero/esercizio mnemonico, dell’evocazione in quanto tale, dell’immagine/simbolo, del dialogo continuo, dell’emotività di risposta. E, quindi, della “ricerca del bello”, per dirla con le parole di Antonio.

Come accade in occasione di questa personale - inaugurazione al Must di Lecce il 30 luglio; esposizione fino al 9 ottobre -, che nel manifestarsi/proporsi in una sequenza di venti opere, ci spinge ad evidenziare una sorta di identificazione/alfabetizzazione dei tòpos: paesaggi, mare, natura, donne, sole, luna… modulati e ri/modulati secondo motivazioni personali che ben presto divengono collettive, e che, nel segno della pittura d’emozione dalla vasta gamma cromatica e nella persistenza dell’impiego dell’oro zecchino (quante letture!), ci portano a voler dare a questa mostra, nel momento in cui la stessa sta per attuarsi, il titolo “E’ tutta colpa della luna …”,  non solo per la predominanza di quest’ultima presenza/forma, quant’anche per le sue infinite significazioni e per i tanti contatti/agganci/connessioni  nei confronti delle realtà/figure  del mare, del sole e della donna. Legandosi all’uno, all’altro e all’altra ancora, e facendo sì che siano ben leggibili i complessi percorsi d’intersezione. Come ben evidente in quel proporsi narrativo che viene fuori dalla visione delle opere, costruite quasi per episodi/frammenti/tasselli e modalità pittoriche e materiche, facendoci riandare al titolo e alla tanta letterarietà che accompagna la luna (l’essere  silenziosa, il giocare serena sull’acqua, il vestirsi d’oro nel cielo, il celare una sua parte, il far brillare il mare), oltre che alla sequenza dei titoli delle stesse, inequivocabilmente legati/legate al tempo della loro “venir fuori” dalle mani, dalla testa e dal cuore dell’artista, mettendo insieme la libertà e il sogno, il desiderio e l’inquietudine, il giardino incantato e la felicità, la solitudine e l’infinito, ma anche i ricordi e quindi la guerra, o meglio la guerra guerra. Raffigurata quasi in quell’unico dipinto astratto al limite dell’informale/gestuale che ci rimanda al Bardo dell’Avon (cui abbiamo rubato le parole che danno il titolo alla mostra e che, riferendosi alla luna,  ci ricorda che  “quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti”), e che noi leggiamo come l’esplosione/abbaglio/energia da cui ripartire per ogni auspicabile e possibile futuro. Dell’arte, ma non solo.

 

 

 

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