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Giovedì 7 settembre, vigilia della Natività di Maria, alle 19, nella chiesa cattedrale Maria Ss. Assunta, l’arcivescovo Michele Seccia (il giorno dopo sarà il 26.mo anniversario della sua consacrazione episcopale), ordinerà diacono l’accolito Gianmarco Sperani. Così si racconta nell’intervista per Portalecce.

 

 

 

Quando hai avvertito i primi segni della chiamata di Dio e come?

La prima intuizione di un desiderio di consacrazione, per me, risale all’infanzia. Cresciuto in un piccolo paese, cui sono molto legato, molte delle attività avevano come centro propulsore la parrocchia. In questo ambito ho conosciuto il mio primo parroco, don Gino de Filippo, insieme all’indimenticabile don Giuseppe Baldassarre e ai vari viceparroci che nel corso degli anni si sono succeduti. Fu la reale vicinanza a questi presbiteri che mi consentì di intercettare dentro di me un qualche interesse per la loro vita completamente dedicata a Dio e alla comunità. D’altronde la Chiesa, per dirla con Benedetto XVI, cresce (e crede) per attrazione; la fede si trasmette per attrazione, cioè per testimonianza. Questo desiderio invece di assopirsi, andò prendendo forma in maniera sempre più definita. Per diversi anni svolsi il servizio liturgico come ministrante prima e come animatore del gruppo successivamente.

 

Ci fu qualcuno in particolare che ti aprì a questa prospettiva?

Don Gino, in particolare, fu la prima persona a cui dissi di voler iniziare un cammino di discernimento in seminario alla ricerca della verità di quella che mi appariva essere la chiamata di Dio. Fu molto contento e mi incoraggiò, più con i gesti che con le parole. Don Gino sapeva esprimere il suo affetto senza bisogno di parlare. Quale eredità del suo ministero mi porto: la sua passione per l’annuncio della Parola di Dio, che si esprimeva soprattutto nella predicazione. Mi porto inoltre il suo amore per la Madonna: le sue forze migliori erano tutte concentrate perché le festività religiose della Madonna, in primo luogo, quella della protettrice, riuscissero nel miglior modo possibile e perché rappresentassero terreno buono per i semi della Parola di Dio che venivano sparsi nella predicazione. In terzo luogo, mi porto l’attenzione verso le persone: don Gino era un prete attento alle relazioni personali delle persone; ciascuno poteva trovare in lui un riferimento, ascolto e aiuto. Fu grande la sua attenzione nei confronti dei giovani e delle giovani accolti nella comunità di recupero per tossicodipendenti. L’affetto di don Gino verso di me non è mai venuto meno; neanche adesso. La sua, per me, è una presenza costante e so che in questi momenti della vita gode, nel mistero di Dio, per ciò che sta accadendo, e si fa intercessore per me.

 

Come hai vissuto il tempo della formazione?

Non finirò mai di essere grato alla comunità del Seminario regionale di Molfetta. È stata una palestra di vita comune. Il tempo del seminario è stato fecondo sotto ogni punto di vista. Al centro della mia giornata ponevo la Celebrazione eucaristica e l’adorazione serale. È importante imparare a radicarsi nella fede in Cristo: se manca quella il ministero diventa un debole vagabondare senza meta. L’autore della Lettera agli Ebrei ricorda a me e a tutti che ha senso vivere soltanto “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (12, 2). L’esperienza della formazione, per me, parte proprio da qui: irrobustire e dare profondità alla relazione col il Signore. Non c’è nulla di trascendentale: è la vita sacramentale che inserisce in questo rapporto, che lo garantisce e consente di essere toccati e salvati, sempre e nuovamente da Dio. Questo ha delle ricadute importanti nella vita quotidiana e ministeriale: la qualità della nostra relazione col Signore si dice nella postura che assumiamo nel mondo, nella Chiesa, con le sorelle e i fratelli battezzati e non. Colgo l’occasione, in questa sede, per ringraziare don Gianni Caliandro, il mio rettore: molte volte siamo rimasti a parlare fino a sera tardi della bellezza e della complessità della vita ministeriale, dell’urgenza di una formazione vera e permanente per i presbiteri, dell’importanza fondamentale di una approfondita conoscenza di sé, oltre che di tanto altro. Don Gianni ha accompagnato ciascuno di noi nel compiere un processo delicatissimo: rivelare a sé stessi la propria verità alla luce della fede, come punto di partenza per un discernimento serio e in vista di una piena realizzazione personale. Tutto questo si iscrive nel desiderio di don Gianni, che poi è il desiderio di ogni battezzato, che il Regno di Cristo venga. E questo regno può venire solo nella misura in cui noi lo viviamo di già.

 

E gli studi?

Per me è stata una grande opportunità studiare la teologia e specializzarmi in teologia ecumenico patristica. Un tempo particolarmente bello, che mi ha avviato allo studio delle discipline teologiche, è stato il triennio trascorso all’ISSR di Lecce a cui decisi di iscrivermi dopo la maturità. Poi ho proseguito con il ciclo istituzionale a Molfetta. Ringrazio l’arcivescovo che mi ha offerto la possibilità di continuare gli studi frequentando a Bari la licenza in teologia ecumenico patristica. Quello dello studio è stato (e continua ad essere) un tempo fecondo, perché l’intelligenza aiuta a credere e credere aiuta l’intelligenza, come dice Sant’Agostino. In particolare, la frequenza del corso di Licenza, mi ha concesso di esperimentare il valore della ricerca e del dibattito teologico, ampliano i miei orizzonti e allargando le mie conoscenze. 

 

Com’è stata la tua esperienza nella comunità parrocchiale?

Vivo la parrocchia praticamente da sempre e, negli anni, il senso di appartenenza è cresciuto sempre di più, nella consapevolezza che la comunità parrocchiale è come una famiglia, in cui si cerca in ogni modo di valorizzare i carismi di ciascuno. In modo particolare, considero il cuore della mia parrocchia la Caritas. L’istanza del servizio agli “invisibili” della nostra società deve diventare prioritaria e irrinunciabile. Servire i poveri ci definisce come discepoli di Gesù Cristo e io questo l’ho imparato dall’equipe di lavoro della nostra Caritas che non conosce stanchezza o scoraggiamento. E poi la vita liturgica: nella e con la preghiera comune si edifica la comunità. Il centro è sempre Cristo, la fonte della vita di ciascuno. Da lui partire, a lui ritornare, da lui ripartire e così via. Quando vedo le persone anziane sgranare la corona penso al grande servizio che esse offrono per la Chiesa, per i presbiteri e per il mondo. È la preghiera che, in qualche modo, guida la storia e la nostra storia di famiglia di Dio.

 

Come ti senti alla vigilia dell’ordinazione diaconale?

Sicuramente un “misericordiato”, come direbbe Papa Francesco. Senza nessun merito il Signore mi ha voluto nella Chiesa e nel ministero diaconale. Fidarsi non è semplice, è vero. Bisogna cogliere la pedagogia di Dio che chiede totale fiducia in lui, senza preoccuparsi del domani. E bisogna cogliersi, anche, come miserabili cui è usata misericordia. Probabilmente non sarò all’altezza del ministero: la grazia del Signore farà il resto. Annunziare il Vangelo è un compito altissimo e grave che può essere sostenuto e significato solo dall’assistenza dello Spirito di Dio, capace di trasfigurare ogni cosa e ogni persona. Mi aiuti il Signore, glielo chiedo sempre, a non aver timore, a non perder tempo nel portarlo laddove egli vuole stare e rimanere.

 

A chi senti di dover dire grazie?

In questo momento, il mio grazie più sincero va alla mia famiglia per ovvi motivi. Anche loro hanno partecipato a questa mia avventura alla ricerca del senso della mia vita. ringrazio il Signore per il dono della mia famiglia: la fiducia nel progetto di Dio è stata una esperienza straordinaria condivisa tra noi, ognuno a suo modo e con i suoi tempi. Vorrei che giungesse il mio grazie al mio e nostro arcivescovo che mi ha visto crescere e maturare in questi anni. È lui che mi ha ammesso, mi ha conferito il ministero del lettorato e quello dell’accolitato; cosicché sento che la sua nei miei confronti è una paternità speciale. La vita del vescovo è centrate fortemente nell’Eucaristia e desidera che lo sia la vita dei presbiteri, dei seminaristi e dei battezzati della nostra Chiesa. Qualche settimana fa, in un colloquio personale, mi ha detto “Ricordati che se non poniamo l’Eucaristia al centro della vita, dell’azione pastorale, del cammino delle comunità tutto sarà sterile e senza senso”. Faccio tesoro di queste parole, le prendo come eredità personale. Oltretutto il vescovo è l’angelo della Chiesa locale; il nostro lo è veramente e lo dimostra nella disponibilità illimitata verso ciascuno.

 

 

 

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