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Il ddl Zan è stato rimandato a settembre, come una volta si faceva con gli studenti non così incapaci da dover ripetere l’anno, ma neanche così in regola da meritare la promozione.

 

 

 

Quel collegio costituito dal Senato - un po’ diverso dal collegio dei docenti - ben avrebbe potuto bocciare l’alunno maldestro, autore di un componimento che fa danno da qualunque parte lo si legga, ma ha preferito graziarlo: al momento del voto della pregiudiziale di costituzionalità, e soprattutto della richiesta di sospensiva, lo schieramento in teoria ostile al testo ha avuto 15 assenze determinanti, talune veramente inspiegabili, e la sospensiva non è passata per un solo voto.

Il rinvio a settembre pare essere sul piano politico l’effetto - soprattutto quanto al Pd - del rischio-bocciatura che il ddl ha corso con queste votazioni preliminari. Sul piano contenutistico esso riguarda tre materie: l’art. 1, con le definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere; l’art. 4, la c.d. norma salva idee, che in realtà conferisce al magistrato una discrezionalità e un potere ancora più estesi; l’art. 7, che permette e finanzia il gender a scuola, a prescindere dal consenso dei genitori. Molti dei contrari al ddl assicurano che le resistenze che esso ha incontrato finora verrebbero meno se le forze politiche che finora lo hanno più fortemente sostenuto, il Pd e M5s, accettassero la proposta di cassare quelle disposizioni, mantenendo le altre.

Il risultato sarebbe molto vicino alla proposta di legge presentata all’inizio dell’attuale Legislatura dall’on. Scalfarotto, e quindi qualcosa in più rispetto a quel ‘testo Scalfarotto’ che nella precedente Legislatura era stato approvato con pochissimi voti contrari alla Camera, e poi era stato fermato al Senato: più che dalla contrarietà dei senatori, dalla diffusa opposizione delle piazze in nome della libertà di opinione, di espressione e di formazione.

Lascia perplessi ascoltare che un ddl - lo ‘Scalfarotto’ -, così a suo tempo contrastato, rappresenti un accettabile punto di ricaduta delle opposte posizioni sul ddl Zan. Non si tratta di non essere mai contenti, o di non comprendere l’opportunità di un accordo per evitare un guaio maggiore: se la lettera delle norme che sopravviverebbero all’appello di settembre ha un significato, è agevole concludere che lasciare in vita degli articoli 2, 3 e 5 rende superfluo cancellare gli altri.

L’art. 2 punisce chiunque “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi (…) fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere (…)”, e vieta, con la reclusione fino a sei anni, la partecipazione e la guida di “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi (…) fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere (…)”. L’art. 3 mantiene l’aggravante. L’art. 5 è quello che applica al nuovo reato la ‘legge del contrappasso’: chi lo ha commesso ha la pena sospesa, o un beneficio equivalente, se svolge lavoro sostitutivo per una associazione fra quelle che promuovono i ‘diritti’ lgbt+.

Non serve a nulla eliminare l’art. 1 e l’art. 4: correlare, come fanno l’art. 2 e l’art. 3, il delitto di ‘istigazione alla discriminazione’, ovvero di ‘discriminazione’ alle categorie di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere significa comunque affidare al magistrato l’identificazione di queste categorie, secondo i propri condizionamenti ideologici, certamente non limitati da concetti sui quali nella stessa area lgbt+ vi è contrasto. Uso volutamente il termine ‘magistrato’, più ampio di quello di ‘giudice’, perché include il pubblico ministero: il quale potrà chiedere, o disporre in via d’urgenza, intercettazioni telefoniche o ambientali (alcuni tetti sanzionatori delle nuove disposizioni lo consentono), e chiedere l’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà. Dopo qualche anno, un giudice potrà pure decidere che non è discriminatorio, e quindi non è reato, affermare che la famiglia è quella formata da un uomo e una donna uniti in matrimonio: intanto chi lo detto avrà subìto indagini, pesanti invasioni nella sfera personale e limitazioni della libertà.

Se poi il giudicante accettasse la tesi del pm grazie all’art. 5 accadrà che il responsabile di una associazione pro family, o più in generale un sacerdote o un catechista che ripeta l’insegnamento della Chiesa su matrimonio e figli, siano condannati ad affiggere manifesti per il Gay pride. Non è un caso se sull’art. 5 e sulla libertà delle associazioni si era concentrata la Nota della S. Sede allo Stato italiano.

Non serve a nulla eliminare l’art. 7: si immagini che una associazione lgbt+ chieda al direttore di una scuola di fare lezioni di gender, e costui opponga un diniego o subordini l’assenso all’accordo coi genitori degli alunni. Se per il pm o per il giudicante tutto ciò è discriminatorio - cosa da non escludere alla luce delle prese di posizione di non pochi magistrati negli ultimi mesi sul tema gender - quanto meno il preside si ritroverà iscritto nel registro degli indagati: saranno sufficienti un paio di simili iniziative giudiziarie e il gender entrerà trionfalmente in tutte le scuole, pur senza l’art. 7.

Agli esami di riparazione sarebbe un grave errore, questo sì da completa bocciatura di una classe politica, consentire un compromesso al ribasso di questo tipo.

(da Tempi, agosto 2021)

 

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