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C’è occupazione e occupazione. C’è quella a tempo indeterminato che permette al lavoratore di impostare scelte di vita ma anche al datore di lavoro di investire in formazione e crescita del collaboratore.

 

 

 

C’è quella a tempo determinato con prospettive di conferma, che nell’immediato permette di avere un’entrata e nei casi virtuosi può trasformarsi in occupazione di lungo termine. C’è il tempo determinato funzionale a particolari fasi produttive, c’è la stagionalità, il precariato, il lavoro in nero. Che non entra nelle statistiche di questi giorni, le più amare perchè contrastano con le prospettive di rimbalzo economico dopo due anni schiacciati dalla pandemia.

Nei dati di maggio il dato complessivo degli occupati scende sotto i 23 milioni con un calo di 49mila unità. Nel dettaglio andando a confrontare la rilevazione sul mese precedente emerge soprattutto il calo (- 96mila) dei contratti a tempo indeterminato. Che sottintende molte cose: mancato turnover con i lavoratori usciti per quiescenza, rinuncia a costruire un percorso comune, preferenza per rapporti di breve termine facilmente smontabili. È la navigazione a vista delle imprese strette tra aumenti delle materie prime, contrazione dei consumi, costo del denaro in crescita e le due grandi devastazioni prima umane e poi economiche: l’effetto Covid per niente concluso e l’invasione in Ucraina in un conflitto europeo che potrebbe durare mesi.

L’economia vera, non quella dei mercati finanziari, ha bisogno di un ambiente dove di ogni scelta (dal grande investimento all’aggiunta di una risorsa professionale) si possano misurare costi e benefici. Altrimenti si preferiscono i piani di mantenimento dell’esistente, il rinvio di ogni nuova iniziativa e l’occupazione scivola di qualità. Nei dati ufficiali la perdita di occupazione stabile riguarda la fascia dai 25-34 anni (-75mila) e i 35-49enni (-17mila). Entrano nel mercato del lavoro 34mila nuove risorse sotto i 25 anni. Non basta per invertire un dato di disoccupazione giovanile al 20,5% tra i peggiori in Europa. Probabilmente molti sono contratti a termine, aumentati a maggio di 14mila (+258mila in un anno) per toccare i 3 milioni 176mila contratti con scadenza, il massimo dal 1977.

Le statistiche solo in parte fotografano il distacco dal lavoro formalizzato delle donne, sempre più assorbite dagli impegni familiari e quello sgretolamento di attese che attraversa gli inattivi, i disoccupati (coloro che un’occupazione l’avevano), gli inoccupati (in cerca di prima occupazione) e chi non cerca neppure.

La grande inflazione di questi mesi (+8% a giugno, poco sotto la media europea +8,6%) peggiora la qualità della vita di tutti e influenza l’occupazione perché obbliga a ridurre i consumi. Con gli stessi soldi non si possono più comprare gli stessi beni e servizi del mese precedente, le spese incomprimibili tolgono spazio alle altre, si rinvia l’acquisto di un elettrodomestico o l’auto anche se usurati. Le imprese, soprattutto quelle che lavorano sui consumi interni, non hanno interesse a studiare, produrre e lanciare nuovi prodotti e servizi. È un’economia che si rattrappisce, il contrario di ciò che servirebbe per creare del buon lavoro. Quello stabile, se possibile.

 

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