Martedì 18 febbraio, alle 17,30, l’Istituto superiore di scienze religiose metropolitano (Issrm) di Lecce in collaborazione con il Dipartimento di studi umanistici dell’Università del Salento propone il secondo incontro di approfondimento sul ruolo del Concilio di Nicea attraverso il tempo della storia.
Il Concilio di Nicea del 325 d.C. rappresenta un punto di riferimento importante per la definizione del linguaggio della fede cristiana, segnando un momento di sintesi tra la speculazione teologica e l’esigenza di unità ecclesiale. Occorre approfondire in che modo il linguaggio della fede emerse non solo come strumento di affermazione dottrinale, ma anche come veicolo di accuratezza teologica: concetti chiave vennero adottati per esprimere la relazione tra il Padre e il Figlio, riflettendo sull’influenza della filosofia greca nella sistematizzazione dei dogmi. Il Concilio di Nicea segnò, pertanto, la definitiva consapevolezza della Chiesa di dover articolare la propria fede in categorie che fossero al contempo comprensibili, coerenti e universali, per garantire la fedeltà alla rivelazione e la coesione della comunità cristiana.
Qualche anticipazione nell’intervista al prof. Vincenzo Di Pilato, ordinario di dogmatica presso la Facoltà teologica pugliese e tra i relatori della serata.
Prof. Di Pilato come le questioni teologiche dibattute a Nicea possono ancora oggi illuminare il cammino sinodale della Chiesa cattolica?
Possiamo cogliere oggi la sinodalità come “dimensione costitutiva” della Chiesa grazie proprio alle esperienze dei primi Concili. Dopo di essi, verranno designate con la parola “sinodo” tutte le assemblee ecclesiali convocate a vari livelli (diocesano, provinciale o regionale, patriarcale, universale) per discernere, alla luce della Parola di Dio e in ascolto dello Spirito Santo, le questioni dottrinali, liturgiche, canoniche e pastorali che man mano richiedevano chiarezza e consenso. Vi è, dunque, molto più di una semplice operazione di traduzione tra il greco “synodos” e il latino “concilium”. Essi si richiamano a vicenda a tal punto che la loro distinzione è stata specificata solo di recente, ovvero all’indomani del Vaticano II, ultimo Concilio ecumenico in ordine di tempo. La revisione del Codice di diritto canonico (1983) ha offerto l’occasione di chiarire la distinzione tra Concilio particolare (plenario o provinciale) e Concilio ecumenico, come pure tra Sinodo dei Vescovi e Sinodo diocesano. Non sono, quindi, in prima istanza le questioni cristologiche dibattute a Nicea ad aver illuminato il cammino sinodale odierno, quanto l’esperienza di fede vissuta, nelle Chiese locali e nella Chiesa universale, a partire da quel Concilio sino a oggi. Essa nasce dalla consapevolezza che l’unità della fede è possibile nella diversità delle chiese. Certo, è pur vero che il primo Concilio ecumenico fu convocato a Nicea nel 325 per condannare un’eresia che metteva in discussione la divinità di Cristo, ma il “Credo” - che ancora oggi professiamo la domenica (nella versione arricchita a Costantinopoli nel 381) - stabilisce di fatto una base comune condivisa da cui partire. Il cammino sinodale ci ricorda che, in un contesto di crescente pluralismo, il richiamo all’unità può essere un principio-guida per il dialogo e la comunione anche all’interno della Chiesa, oltreché un esempio per ogni gruppo sociale e politico di estrazione laica. Inoltre, Nicea non è il ground zero della fede. Le decisioni prese a Nicea dai vescovi ivi riuniti, sono state messe alla prova della precedente “tradizione apostolica” di cui aveva parlato il vescovo di Lione s. Ireneo. L’unità non si realizza, infatti, sulla base di un consenso di ordine solo numerico, ma sulla chiarezza che nasce dalla pratica della misericordia, in particolare verso i più poveri e gli abbandonati. Questo può incoraggiare oggi la Chiesa sinodale a riflettere su come le tradizioni possano informare le pratiche e le decisioni attuali, mantenendo un legame con le radici della fede di chi ci ha preceduto, in maniera viva. Va sottolineato che Nicea è stato senza alcun dubbio - sulla scia dell’Assemblea di Gerusalemme narrata negli Atti degli Apostoli - un esempio di “discernimento comunitario” in cui la Chiesa dovrà sempre coinvolgersi se vuole progredire, con l’aiuto dello Spirito Paraclito, nella comprensione del Vangelo nella vita quotidiana e collettiva. Rispetto ai primi secoli, oggi abbiamo molti più strumenti offerti dalle scienze umane per favorire il clima di ascolto e di rispetto reciproco necessari a cogliere i “segni dei tempi”. Senza l’unità, il dialogo, la chiarezza dottrinale e l’impegno costante per la verità nella carità, ogni cammino sinodale nella Chiesa sarebbe solo ideologia. Nicea ce lo insegna proprio nei suoi limiti storici.
Il cardinale Koch, prefetto del Dicastero per l’unità dei cristiani, in un suo intervento ha parlato su come - dopo 1700 anni - il Concilio di Nicea riesca ancora a parlare alla fede di oggi. Comunicare questo grande messaggio dottrinale alla generazione Z è ancora possibile? O è solo argomento per teologi esperti?
Mi permetto di riportare e fare mio l’appello lanciato qualche giorno fa da una delle più grandi donne italiane viventi. Mi riferisco alla senatrice a vita Liliana Segre che alle celebrazioni per la “Giornata della Memoria” svoltasi al Quirinale ha ascoltato la richiesta di aiuto rivoltale dai giovani. «Come fare a costruire una memoria che sia l’espressione di un mondo che rispetti i principi della libertà e della dignità dell’uomo?» – le hanno chiesto. E Segre ha risposto offrendo loro tre brevi consigli: «Studiare la storia, la geografia, staccarsi dal telefonino». Credo sia questo il primo passo, seppur non sufficiente. Se studiare la storia civile italiana del secolo scorso è oggi un problema per la generazione Z – come rimarcato dalla sen. Segre –, tanto più lo sarà se si tratta della storia della Chiesa di 1700 anni fa! È una missione sfidante per i credenti, però non impossibile. Come dicevo prima, l’anelito all’unità che a Nicea ha alimentato le discussioni e il confronto, a volte non facile, è tipico dei giovani. Può essere considerata, quella dell’unità della famiglia umana, una chiave di lettura di quell’evento ecclesiale del passato per comprendere che “nessuno si salva da solo”. Cos’altro può dirci la verità proclamata a Nicea circa la “divinità di Cristo” se non che essa si fonda nella sua “relazione filiale” con Dio Padre? Non possiamo sentire il legame che unisce gli esseri umani nel mondo al di là del colore della pelle, della nazionalità, della religione o di altro, se non cogliamo in Cristo questo legame filiale con Dio e fraterno tra noi. L’immagine di Cristo disegnata insieme a tutti i membri della Chiesa a Nicea non può non avere riflessi anche sull’immagine di Chiesa. Non è forse la Chiesa “corpo di Cristo”? Alcuni giovani hanno scritto qualche mese fa una Lettera aperta ai padri sinodali, apparsa sul quotidiano “Avvenire”. Mi ha colpito un passaggio: «Una foto in particolare ci ha colpito, e vorremmo prenderla come simbolo e promessa della Chiesa che anche noi desideriamo: vi ritrae attorno a grandi tavoli rotondi, a dialogare e discutere. Poche persone attorno a ogni tavolo, così la relazione tra voi può essere faccia a faccia. Il tavolo è rotondo, non ci sono lati e non ci può essere un capotavola; attorno al tavolo si vedono vescovi e laici, cardinali e anche qualche donna. In uno si vede papa Francesco, anche lui partecipante alla pari con gli altri. Ecco, questa è la Chiesa che ci piace, che vorremmo sperimentare con lo stesso stile anche nelle nostre parrocchie e nelle nostre chiese. Tutti, ciascuno nella sua diversità di vocazione, di condizione e di ministero, attorno allo stesso tavolo, ciascuno con la possibilità di dire la propria». Credo che parlare di Nicea sia un’ottima occasione per riprendere uno stile di essere Chiesa in cui c’è spazio per tutte tutti, a cominciare dai giovani. Il dialogo favorisce l’attualizzazione del messaggio di Cristo nel tempo presente e aiuta ad aggiornare il vocabolario della fede. Ma occorre prima accettare di sostare davanti ai giovani, senza la fretta di capirli secondo gli schemi del passato. Nessun autentico amore cresce “dopo” aver capito tutto dell’altro/altra. Al contrario, l’amore diventa la forma più alta di conoscenza solo in quello spazio ignoto che è fuori dei confini delle nostre idee e che chiamiamo vita.
Prof. Di Pilato lei interverrà martedì 18 febbraio con una relazione dal titolo: “Quali immagini per dire Cristo oggi”. Potrebbe anticiparci qualche passaggio della sua comunicazione?
Il Concilio di Nicea è il primo poderoso tentativo di raffigurare Cristo non con i colori o le linee tipiche dell’arte antica, bensì mediante gli strumenti concettuali posti a disposizione presso il mondo culturale del mediterraneo. Per definire Colui che san Paolo indicò essere la viva «immagine del Dio invisibile», si fecero ben presto strada tra gli scrittori cristiani dei primi secoli due concetti che diverranno ben presto imprescindibili per le formule dogmatiche: charis (grazia) e physis (natura), espressioni rispettivamente del divino e dell’umano. Essi daranno un forte impulso all’elaborazione di una paideia nuova dalla quale sarebbe sorta una cultura generata dall’incontro, non irenico, tra fede ebraico-cristiana e cultura greco-ellenistica. Sorgeranno da qui, nelle epoche successive, istituzioni sociali, politiche ed economiche, mirabili opere d’arte, manifestazioni spirituali e religiose che segneranno intere popolazioni fino ai nostri giorni. Nei secoli che precedettero Nicea, i tentativi per descrivere le immagini di Cristo furono quasi esclusivamente appannaggio di quel movimento filosofico, religioso ed esoterico sviluppatosi tra il II e il IV secolo denominato “gnosticismo”. Contro questa forma di eresia, le comunità apostoliche preferivano ricorrere a immagini allegoriche quali il pesce o il Buon Pastore, il Maestro oppure l’Orfeo musico. Da Nicea in poi, la teologia e l’arte cristiana dovettero invece fare i conti con il recupero dell’immagine (eikon) di Dio rivelataci dal Verbo incarnato (fino ad allora proibita nella tradizione giudaica!), attraverso l’idea (eidos) filosofica affrancatasi ormai dalle fantasie mitologiche antropomorfiche. Nicea I viene celebrato in questo contesto di grande fermento di idee che andrà a mutare radicalmente il paradigma culturale del tempo. Se vogliamo oggi ripensare le immagini di Cristo, la strada di Nicea ci conduce a formulare un linguaggio delle fede più comprensibile ai nostri contemporanei. Il carattere affidabile della verità di Cristo contenuto nelle formule che ancora oggi impieghiamo nella preghiera liturgica, potrà essere riconosciuto solo se tornerà a sprigionare la sua carica di autentica umanizzazione, la sola capace di far trasparire la luce della divinità del Cristo di Nicea nelle nostre relazioni interpersonali a 360 gradi.
***
Appuntamento, dunque, a martedì 18 febbraio alle 17.30, presso l’aula magna dell’Issrm in via Umbria a Lecce, per un momento formativo rivolto non solo a studiosi e specialisti ma a tutti coloro che vogliono approfondire le radici teologiche della fede. Partecipazione gratuita, iscrizione tramite piattaforma a questo LINK (https://www.eventbrite.it/e/biglietti-nicea-e-il-linguaggio-della-fede-1206033050319?aff=oddtdtcreator).