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Una fresca meditazione sulla speranza che diviene prospettiva cristiana per tutti se è il frutto di una fede operosa, di una testimonianza radicata nella scelta definitiva per il Signore mirabilmente sintetizzata nella frequente espressione del “prendere Dio sul serio”, di un vangelo vissuto, grazie all’azione dello Spirito Santo, seppur nella fatica quotidiana della vita.

 

 

Sono stati questi i passaggi cruciali della prima catechesi (IL TESTO INTEGRALE) che l’arcivescovo Angelo Raffaele Panzetta ha “regalato” ieri mattina ai giovani “pellegrini di speranza”, commentando i primi dieci versetti della Lettera ai Tessalonicesi  “e non ai Tessalocinesi come lesse uno dall’ambone”, ha ricordato in apertura con una battuta simpatica, utile a creare il clima -. 

Nella basilica di San Giuseppe Artigiano in L’Aquila, con tono deciso e con un linguaggio incisivo, giovane e al passo con i tempi, l’arcivescovo ha parlato per una quarantina di minuti, scuotendo i cuori degli ottanta giovani della Chiesa di Lecce, in pellegrinaggio giubilare dalla tappa abruzzese verso Roma.

“Ho scelto questo brano - ha esordito il presule invitando i ragazzi a cercare il brano del Nuovo Testamento sullo smartphone - perché è il documento più antico in cui si parla della speranza”. Ha voluto tornare alle origini per spiegare ai ragazzi perché Papa Francesco ha scelto il tema caratterizzante il Giubileo 2025: “Spes non confundit”.

La speranza - ha ribadito l’arcivescovo - è la passione per il futuro, è lo sguardo positivo al futuro. E a noi tutti, adulti e giovani, serve come il pane lo sguardo positivo al futuro.  Perché, se non ci fosse uno sguardo positivo al futuro, chi studierebbe?  Chi entrerebbe in seminario? Chi si fidanzerebbe? Chi si sposerebbe? Chi farebbe progetti? E chi firmerebbe un mutuo se non ci fosse uno sguardo positivo sul futuro? Quindi la speranza non è un atteggiamento religioso che ci serve per il Giubileo, ci serve per la vita. E ci serve come l'aria.  In fondo noi siamo qui per un atto di speranza”.

Panzetta, poi, dopo aver fatto notare ai ragazzi che quella alla piccola Chiesa di Tessalonica è una lettera scritta a sei mani - da Paolo, da Silvano e da Timoteo -, ha sottolineato come Paolo cominci spesso “le sue lettere con la preghiera di ringraziamento per una motivazione fondamentale: egli vuole che la sua relazione con la comunità di Tessalonica sia abitata da Dio”. “La nostra vita è in tessuta di relazioni - ha detto -. Se togliamo le relazioni nella nostra vita si perde tutto. Noi siamo una ragnatela di relazioni. E Paolo all’inizio della Lettera si rivolge a Dio perché Egli possa abitare questa relazione.  Le relazioni umane sono importanti e quando sono abitate da Dio diventano un capolavoro”. 

“Non so se vi è mai capitato di condividere qualcosa della fede in profondità.  Quando metti Gesù in mezzo, quando parli di Lui, quando parli a Lui insieme con un fratello o con una sorella… si crea un cemento, un legame indistruttibile. Come sarebbe bello - l’auspicio del pastore della Chiesa di Lecce - se in questo Giubileo nascessero amicizie così, se nascessero legami così forti, belle amicizie il cui collante della relazione non sia solo la squadra di calcio e nemmeno la passione per questo o quell'altro tipo di musica: cose tutte importanti. Non l'amore per questo sport o per quell'altro, ma il collante più forte è l'amore per Gesù”.

Continuando la lettura della Parola di Dio l’arcivescovo ha messo in evidenza come nella preghiera iniziale Paolo ringrazi il Signore per i frutti belli maturati nella comunità di Tessalonica: “Nella comunità di Tessalonica è cresciuta una fede che è diventata opere. Nel Nuovo Testamento si dice che la fede senza le opere è morta.  Invece, quando la fede è operosa, è viva.  Paolo è contento perché i Tessalonicesi hanno conosciuto il Signore, hanno ascoltato la Parola, hanno aderito con la loro fiducia fondamentale al Signore. Ed è felice perché questa fede è diventata un darsi da fare, è diventata opere visibili, storiche, concrete. È bello quando la fede di una comunità prende corpo nelle opere, quando si vede, quando la fede non resta chiusa nei cuori, ma si incarna in gesti concreti, gesti di amore, di attenzione, di compassione, di misericordia.  La fede si vede concretamente quando si incarna nelle opere. E le opere, spesso, sono sacramento, cioè segno profondo della fede”.

“La seconda cosa bella che Paolo ha notato nella comunità di Tessalonica - ha proseguito -, è che in essa è maturata una speranza ferma. (14:42) Si dice nel testo, ‘la fermezza della vostra speranza’. Nel testo originale si usa il termine hypomoné (ὑπομονή). Forse il modo migliore per tradurla in italiano è la ‘resilienza’, un termine che adesso è diventato di moda ed è la capacità di resistere alle prove.  Questa, forse, una delle note più interessanti del testo, perché mentre la fede produce opere, la speranza produce capacità di resistere di fronte alle difficoltà. Quali difficoltà c'erano a Tessalonica?  La difficoltà di essere credenti, un piccolo gregge, in un mare di paganesimo”.

Che cosa vuol dire questo per i giovani cristiani di oggi? Vuol dire, ha risposto Panzetta, che “quando devi remare contro e ti stanchi un po', la speranza, invece, ti dà una capacità di non mollare la presa, di non gettare la spugna quando essere cristiani è impegnativo. […] La speranza ti fa lottare per costruire un mondo nuovo. La speranza non ti fa arrendere quando è difficile la vita, quado ti trovi di fronte ai drammi, le patologie, le malattie, di fronte alla perdita del posto di lavoro, quando pagare le bollette è difficile”.  

E qual è il contrario della speranza? “La disperazione - chiaro e tondo -, che assomiglia tantissimo alla rassegnazione. La speranza dunque è un argine, una diga, una grande forza che ti impedisce di perdere i grandi sogni della vita e di assaporare le cose belle dell'esistenza.  L'ultima cosa che nel testo viene segnalata è la fatica della carità.

Paolo termina la prolusione alla sua Lettera con la fatica della carità (“la fatica della vostra carità”), chiudendo, così, il cerchio sulle virtù teologali. “Paolo ci fa capire - riprende il pastore - che la carità, l'amore, non sono un'esperienza episodica. La carità è uno stile di vita e quando tu sei sempre impegnato a volere il bene dell'altro, questo è sempre faticoso”.

Un ultimo rilievo dell’arcivescovo nell’esegesi del brano: “La prima volta che nel Nuovo Testamento si parla di fede, speranza e carità, si parla di atteggiamenti della Chiesa. È la Chiesa che crede, che spera e che ama.  Fede, speranza e carità sono atteggiamenti individuali, ma prima ancora sono atteggiamenti comunitari ed ecclesiali”.

Prima di consegnare alcune sollecitazioni per la riflessione personale e di gruppo l’arcivescovo ha spiegato ai ragazzi presenti il motivo per il quale a Tessalonica sono fiorite la fede, la speranza è la carità. “Paolo - ha detto Panzetta - descrive in modo mirabile tutto il cammino che è avvenuto. All'inizio di tutto c'è Dio, dice Paolo a quelli di Tessalonica, ‘fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui’. All'inizio della comunità di Tessalonica non ci sono i missionari che hanno portato la Parola. No, c'è Dio che ha amato quelle persone, ad una ad una, e gli ha scelti. Quindi all'inizio della vita cristiana non c'è una decisione personale. All'inizio della vita cristiana c'è una scelta dall'alto. Se tu sei cristiano è perché sei stato amato e sei stato scelto.  Non si è cristiani per caso, non si è cristiani a fortuna, come si potrebbe dire.  Non si è nemmeno cristiani solamente perché si è nati dentro un contesto ancora credente”.

E allora, che cosa è avvenuto? “È avvenuto he quelli di Tessalonica hanno spalancato il cuore alla Parola di Dio. E lo Spirito Santo ha agito nei cuori e ha prodotto una grande convinzione. Ecco che cosa succede quando si ascolta la Parola. Tu ascolti la Parola, apri il cuore con disponibilità e lo Spirito Santo agisce nel cuore e nella coscienza e quello che ascolti ti vince, ti convince. Probabilmente qualche volta è già accaduto nella tua vita che ascoltando una Parola ti sei reso conto che la Parola ti toccava anche nel cuore. Non solo quella Parola ti ha convinto ma ti sei reso conto che quella era una Parola di vita”.

Se ascolti una Parola che ti scalda il cuore - ha suggerito l’arcivescovo -, se ti accorgi che lo Spirito Santo ti parla dentro e ti convince, poi ti devi lasciare cambiare da quella Parola. E qual è il cambiamento che la Parola richiede? Di abbandonare gli idoli.  Devi, cioè, abbandonare quei beni creati che per te hanno preso il posto di Dio”.

“Sarebbe bello in questi giorni chiedersi - le domande per la riflessione -: ci sono nella mia vita delle cose che hanno preso il posto di Dio? Ci sono idoli nella mia vita?”. 

E ancora: “Quali sono i pilastri della tua vita?”. E poi, “Dove trovi la forza per affrontare le difficoltà? Dove trovi la luce per guardare positivamente il futuro anche di fronte alle asperità della vita?”. 

E l'ultima cosa: “I cristiani di Tessalonica hanno vissuto un cristianesimo contagioso. Erano quattro gatti in un mare di paganesimo, ma sono diventati contagiosi perché erano modelli. Erano persone che ascoltavano la Parola e la mettevano in pratica. Ci dobbiamo chiedere: nelle nostre comunità noi siamo modelli per gli altri che sono lontani?”. 

“Riflettendo su queste domande - ha concluso l’arcivescovo - ci accorgiamo di quanta strada dobbiamo ancora fare. Molti dei vostri amici avrebbero voluto partecipare ma, per un motivo o per un altro, non sono venuti e poi abbiamo tutta una grande famiglia che è la nostra diocesi che è rimasta a Lecce. Noi ce li dobbiamo portare tutti nel cuore, dobbiamo pregare anche per loro. Preghiamo per noi e per loro perché il fuoco della speranza divampi. Vi ricordate quel passaggio del Signore degli Anelli? Il fuoco della speranza divampa. È uno dei passaggi più belli di tutta la saga. Dobbiamo tornare a casa con il fuoco della speranza che divampa”.

 

Photogallery di don Emanuele Tramacere.

 

 

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