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Celebrazione della messa in Coena Domini, presieduta dall’arcivescovo Michele Seccia in cattedrale, con il rito della lavanda dei piedi compiuto su sei coppie prossime al sacramento de matrimonio. Una scelta, fortemente sostenuta dall’arcivescovo, a sottolineare ancora una volta, sulle indicazioni della Lettera Pastorole “Ascolta Popolo Mio”, della lettera di San Valentino scritta ai fidanzati e del recente incontro con loro in diocesi, l’importanza di tale scelta, da intendere  non come un  avvenimento, ma come consapevole promessa di servizio e di donazione reciproci.

 

«Prima della sulla ultima ora Gesù - precisa immediatamente mons. Seccia - prese il pane e il vino: il gesto che ha compiuto ha voluto anche significare il valore di ciò che sarebbe accaduto. Tutto ciò che Cristo ha fatto mandato dal Padre è per servire l’umanità, affinché ogni uomo ed ogni donna possa riscoprire la dignità davanti a Dio». 

Poi il discorso passa sul gesto della lavanda dei piedi alle giovani coppie, testimonianza della nostra fede vissuta nell’amore, «che Gesù ha consegnato all’uomo e alla donna uniti dall’amore coniugale, perché il sacramento del matrimonio e ancor più la famiglia, come comunità di comunione benedetta dal Signore, diventi luogo non solo dell’amore, ma di un amore che si fa servizio».

Il racconto della storia della salvezza dell’uomo dall’Esodo alla prima lettera ai Corinzi di San Paolo Apostolo, al capitolo 13 del Vangelo di Giovanni. Poi l’apertura dell’omelia con l’invito del vescovo «che la Parola ascoltata dal Vangelo risuoni nei nostri cuori!».

L’attenzione si ferma sul gesto di Gesù: tutti e quattro i vangeli raccontano della Pasqua ebraica, ma soltanto il Vangelo di Giovanni, nel capitolo 13, racconta il noto episodio della lavanda dei piedi. Una frase commuove il cuore di noi cristiani: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine». Un rito di ospitalità del mondo antico, per consuetudine un dovere dello schiavo verso il padrone, della moglie verso il marito, del figlio verso il padre, diventò con Gesù gesto non di sudditanza, ma di servizio e donazione totale verso chi si ama. Una presa di distanza dai “segni del potere” codificati in rituali antichi, per educare all’amore, al “potere dei segni”.

«‘avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine’, in questa frase è racchiuso il mistero celebrato nel triduo pasquale. L’amore ci fa pensare alla conseguenza ultima di un amore che si fa servizio, - continua Seccia - ma anche di un amore che si fa offerta della vita. Occorre contemplare la Parola, ‘immaginare’ che Dio dialoghi con noi, che Gesù sia nel cenacolo». Non fantasia, non solo immaginazione, ma l’ascolto della Parola dovrebbe immetterci in un’esperienza personale viva, altrimenti rischia di rimanere vuota e fine a se stessa.

Da qui il significato della lavanda dei piedi, «non una rappresentazione scenografica: deporre le vesti e cingersi la vita col grembiule è l’esemplificazione più concreta del mistero dell’istituzione dell’Eucaristia».

Il riferimento al tradimento di Giuda, «che era lì ed aveva già deciso e Gesù lo sapeva: ecco l’amore, la donazione e il significato dell’eucarestia, un amore grande, amare sino alla fine, passa attraverso il dono non di qualcosa, ma di se stesso».

L’accenno al rifiuto di Simon Pietro dinanzi al gesto di Gesù di lavargli i piedi. Una reazione ed una risposta: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo», un simbolismo che si condensa nella frase: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».

Continua l’arcivescovo: «quel Pietro che fa lo schizzinoso o il falso umile e poi dopo qualche ora, per tre volte, non lo conosce. Pietro, ma Pietro posso essere io come ciascuno di noi, perché è facile leggere il vangelo guardando, diventa più complicato quando leggiamo il vangelo immedesimandoci, chiedendosi: Io in questo racconto dove sto, chi sono, chi mi sento di essere stasera? Sarei disposto a lavare i piedi?».

La lettura della Parola non è un racconto edificante, ma deve muovere le nostre coscienze, guidare le nostre azioni. «Nel proprio ruolo, nella propria posizione, scelta di vita ed esperienza di fede bisogna sentirsi interrogati dalla Parola, per chiedersi in questo racconto che cosa farei e che cosa sarei disposto a fare».

«Sono gesti che ci parlano, sono parte della nostra vita», segni sacramentali che devono incarnarsi nella esperienza, manifestando ciò che la Parola di Dio ha detto.

Conclude l’arcivescovo «come in una preghiera continua, che parte dalla Parola ascoltata, nella nostra memoria deve, come un martello, ripetersi la frase ‘ci amò sino alla fine’».

Poi il tenero ricordo di don Tonino Bello: «non ho con me tutta la sua poesia sul grembiule, nella quale afferma “Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo. Il quale Vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale”. Che poi aggiunge: “la stola ed il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile». Questo il significato dell’amore come donazione totale di sé.

Sulle note del canto “Il comandamento della carità”, la lavanda dei piedi alle sei coppie visibilmente emozionate. Espressivo il loro tenero incontro di sguardi e il loro percettibile imbarazzo, un gesto significante che accompagnerà la loro vita matrimoniale nei momenti di difficoltà.

E siccome, come dalle parole di mons. Seccia, la liturgia non è mera rappresentazione scenografica, dove tutto è scritto e dettagliatamente previsto, un fuori programma, un imprevisto come accade nella vita di tutti giorni: un ragazzo di colore a sorpresa si siede accanto alle giovani coppie, chiedendo anche per sé la lavanda dei piedi. E con l’amore e la naturalezza di un padre, mons. Seccia si inginocchia e lava i piedi anche a lui. Dodici o tredici poco cambia.

La semplicità e la spontaneità di un gesto che fa pensare, riflettere, meditare. E a conclusione della celebrazione, uscendo dalla cattedrale, le tre domande poste dal pastore sembrano risuonare nell’aria e nella nostra coscienza stuzzicata, sensibilizzata: chi sono, chi mi sento di essere stasera? Sarei stato capace di quel gesto?

Si ringrazia Samuele Dell'Onze per le foto

 

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