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“E mi permise di restarle a fianco finché niente restò di lei”. Pochi sanno che una delle più belle canzoni italiane, testo firmato da Carla Vistarini e musica di Tony Cicco, il batterista e cantante della Formula 3 che la incise in un suo bellissimo disco, è stata cantata anche da Raffaella Carrà a metà degli anni Settanta del secolo scorso.

 

 

 

Raffaella è stata un personaggio internazionale, certo, legata a brani e trasmissioni più leggere, da Canzonissima a Milleluci con Mina, da Fantastico (con Gigi Sabani altri miti del calibro di Corrado e Renato Zero) a “Carramba! Che sorpresa”, prima di andarsene, poche ore fa.

Senza clamore, e lasciando molti nel dolore e nel rimpianto. E non sono state parole di maniera. Canzoni leggere, non c’è dubbio, ma anche appunto popolari con quegli espedienti legati al corpo e alle sue nuove frontiere, e poi anche film nazional-popolari, ma pure duetti con James Brown, il re del R&B e della musica nera, e una assidua presenza in quel viale dei cambiamenti che portò l’Italietta del sabato sera in bianco e nero alle prime trasgressioni, sempre nazional-popolari, ma anche ad una maturità diversa.

Raffaella Carrà ha rappresentato l’equilibrio che ha accompagnato periodi difficilissimi della nostra storia, anni di piombo e delitto Moro compresi, in cui l’apparizione televisiva non era espediente per l’esibizione trasgressiva fine a se stessa, ma una sorta di continua mediazione in progress verso la cosiddetta modernità. Un’icona assoluta e baciata dal dono della misura pur nel sorridente e inevitabile viaggio mediatico verso la modernità. Ha detto bene Renzo Arbore, è stata il simbolo della “belle epoque” della televisione nazionale.

Alcuni monumenti dello spettacolo e dell’effetto speciale al femminile, e non solo in Italia, le devono qualcosa. A noi piace ricordarla soprattutto per la sua interpretazione di quella struggente canzone che non aveva nulla di melodrammatico, anzi, toccava i lidi del dolore, della solitudine e del rimpianto, in anni in cui la febbre del sabato sera imperava non solo tra gli adolescenti, e aveva trasformato un gruppo dedito a capolavori non per tutti, i Bee Gees, in icone del pop. “E mia madre” rimane un obbligo d’ascolto per la nostra musica chiamata - talvolta a torto - leggera.

Il fatto che a cantarla sia stata anche la Raffaella nazionale è un segno di come siano davvero complessi i mondi mediatici,

ma che ce la dice lunga anche sul peso anche qualitativo della sua azione di svecchiamento della nostra scena mediatica.

Un’icona nazionale, e popolare, nel senso migliore del termine, che resta.

 

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