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“Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice” (Hic esse valeo nec volo, illic volo nec valeo, miser utrubique).

 

 

 

A scrivere questo verso attraente è Aurelio Agostino, nelle sue “Confessioni”, intorno all’anno 400. Si riconosce ad Agostino (lo fanno diversi filosofi, anche non credenti) una grande capacità nell’aver investigato il “cor inquietum” con una profondità che supera la riflessione interna cristiana e si pone come una perla di saggezza; non a caso “Le Confessioni” è uno dei classici più tradotti e venduti al mondo.

Ma veniamo alla pandemia: cosa c’entra col “cor inquietum” agostiniano? Forse molto di più di quello che pensiamo. La pandemia - sappiamo bene - porta sofferenze e disagi: fisici, economici relazionali e anche interiori. Ascolto amici e conoscenti - e li sento così vicini alla mia personale esperienza - che mi raccontano di soffrire un disagio psicologico, interiore, accompagnato spesso da tristezza o apatia. Ovviamente non mi riferisco a chi soffre fisicamente il Covid, a casa o in ospedale, e nemmeno agli operatori sanitari e sociali che sono sottoposti a una fatica immane con il rischio di scoppiare (burnout). Mi riferisco a chi è sano rispetto al Covid, ma comunque spesso non sta bene dentro. Le parole di Agostino mi sembrano così pregnanti per descrivere il nostro stato: “Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice”. Diventiamo così, spesso, tristi, inquieti…

Agostino presenta una risposta al perché dell’inquietudine. Certamente la sua risposta è, prima di tutto, cristiana. Ne parla aprendo il testo delle Confessioni: il cuore umano è “inquietum” finché non riposa in Dio (“donec requiescat in Te”, I, 1). Se fosse solo questa la risposta lascerebbe fuori tutti coloro che non sono credenti. Invece Agostino si addentra in un’analisi che non è solo teologica ma anche antropologica.

La quiete, secondo l’autore, non va trovata nella pigrizia, ma nel pensiero, “che libera dai condizionamenti dello spazio e del tempo”. E i condizionamenti oggi non mancano, anzi la lista non è mai stata così lunga: i colori regionali segnano orari, movimenti ridotti, relazioni alla prova, attività inibite e così via. Importanti, per non cadere nella trappola della inquietudine, sono il saper gestire lo spazio e il tempo. “Lo spazio - scrive Agostino - ci presenta cose da amare, che poi il tempo ci porta via, lasciando nell’anima una folla di immagini che stimolano la cupidigia ora verso un oggetto ora verso un altro. Così l’animo diviene inquieto e travagliato nel suo vano desiderio di possedere ciò da cui è posseduto” (De vera religione). Succede anche a noi ora: siamo in spazi limitati e contesi e il tempo sembra non restituirci quello che avevamo e che non era “parte” della nostra vita, ma la nostra stessa vita. In primis le relazioni.

Siamo inquieti perché non abbiamo quello che avevamo più di un anno fa. Ma, al tempo stesso, siamo ancor più inquieti perché vogliamo possedere di più, “possedere ciò da cui siamo posseduti”. La fretta di ritornare alla normalità, il cancellare ciò che stiamo vivendo, l’immergerci in quella che chiamiamo normalità (ora negata) sono forse tra le più potenti fonti di inquietudine. Anche l’irresponsabilità, in alcuni atteggiamenti pubblici, può nascere da questa cupidigia verso il passato recente; quasi in una recessione infantile: vogliamo tutto, di nuovo e subito. Non facciamo che aggiungere limitazioni a limitazioni, cioè condizionamenti interiori a condizionamenti esteriori. Inquietudine a inquietudine.

È il pensiero “che libera dai condizionamenti”: ciò vale per tutti, in ogni cultura e religione. È il pensiero che raccoglie alcuni pezzettini interiori andati in frantumi “per stare dove valiamo”, dove possiamo essere utili a noi stessi, agli altri e alla natura. Ma anche per volere secondo un progetto benefico, non quello del tempo che verrà, ma del tempo e dello spazio attuali, qui e ora. Così nelle parole di Agostino: “Per questo [l’animo] è invitato alla quiete, ovvero a non amare le cose che è impossibile amare senza affanni. Solo così infatti le dominerà: non ne sarà posseduto, ma le possederà”.

 

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