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Era il febbraio del 1945 e a Yalta si svolgeva la conferenza di pace dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Intorno al tavolo i vincitori Roosevelt, Churchill e Stalin.

Si racconta che, a un certo punto, fu fatto riferimento al disagio del Vaticano sul nuovo assetto europeo che andava delineandosi. La risposta di Stalin, tra l’ironico e il beffardo, fu tranchant e liquidatoria: “Ma quante divisioni ha il Papa?”. Aveva ragione. In effetti il Papa non aveva divisioni, al più qualche decina di guardie svizzere “armate” di una innocua alabarda. Poca cosa per intimorire il capo di una superpotenza atomica. Eppure, pochi decenni dopo, l’impero sovietico franò certamente sotto i colpi delle sue contraddizioni, ma anche per l’incessante attività pastorale e culturale di un Papa, Giovanni Paolo II, che seppe parlare di libertà, democrazia, progresso sociale, contribuendo a liberare interi popoli dalle loro catene.

È la vita della Chiesa non chiusa tra quattro mura, è la vocazione di chi è chiamato a ridurre le distanze tra il cielo e la terra, è la missione antica, originaria di chi volgendo lo sguardo verso l’alto, deve riuscire a tenere i piedi ancorati alla realtà quotidiana, ai problemi, alle angosce e alle crescenti povertà di persone che non possono essere abbandonate al loro destino. Così prova a suggerire soluzioni possibili o, con spirito di servizio, a dare risposte in modo diretto, quando i poteri pubblici si dimostrano assenti o inadeguati.

La Chiesa è vitale se è presente nella società con i suoi valori e capacità di ascolto, se dialoga con la gente e ne raccoglie i disagi, se indica vie d’uscita rispetto alle criticità sociali: è l’insegnamento di Papa Francesco che non ha finalità politiche, ma semplicemente indica un percorso che, allo stesso tempo, è di fede e di apertura all’umanità intera.

Accade che una frase di Francesco venga etichettata, secondo categorie della lotta politica: è di destra, no è di sinistra. In realtà, una riflessione più attenta e non di  parte lascia trasparire che quelle parole guardano solo al bene della persona e della comunità, senza secondi fini.  

Succede al Papa, ma anche ai vescovi e all’ultimo dei preti. Un richiamo ai doveri di una Pubblica amministrazione o un giudizio - positivo o negativo che sia - sull’attività di un amministratore vengono subito etichettati a secondo del colore politico di chi è chiamato in causa. Il merito non conta, si evocano suggestioni, si arruolano gli uomini di Chiesa tra gli amici o tra gli avversari, mentre il senso vero e i motivi della denuncia o dell’approvazione vengono ignorati o coperti da consensi interessati o da critiche scomposte.

Un po’ è quello che è accaduto a Lecce dopo alcune dichiarazioni dell’arcivescovo  Michele Seccia sulle possibili dimissioni del sindaco in carica alle quali aveva fatto riferimento all’interno di un discorso sui problemi generali della città e sulle povertà che insidiano fasce sempre più ampie della popolazione.

Parole in coerenza con l‘insegnamento della dottrina sociale cristiana moderna che ha avuto 127 anni fa nell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII la sua carta fondativa. Parole che volevano suscitare una reazione positiva, una mobilitazione a favore dei poveri e delle loro più urgenti necessità, anche per dare senso profondo e significato non effimero al Natale.

La comprensibile preoccupazione dell’arcivescovo per una città priva di una guida quando c’è tanto da fare è stata letta da alcuni - è il caso dei lavoratori di Lupiae Servizi - come un endorsement nei confronti di Salvemini (centrosinistra), mentre è di tutta evidenza che il ragionamento dell’arcivescovo riguardava la continuità dell’azione amministrativa in quanto tale per fronteggiare le emergenze sociali e non la sorte del sindaco  che - come mons. Seccia e tutti sanno molto bene - dipende soprattutto dalle decisioni che intenderà adottare la maggioranza dei consiglieri comunali nell’Assemblea dell’anatra zoppa dove ancora oggi gli eletti con il centrodestra avrebbero i numeri per far cadere il primo cittadino. Lo stesso ex sindaco Paolo Perrone (centrodestra) ha riconosciuto che nelle parole dell’arcivescovo non si ravvisava alcun tentativo di ingerenza politica. Giusto per chiudere la polemica.

Resta un problema, però, che riguarda l’autonomia di giudizio di un uomo di Chiesa che non può essere valutato con le categorie della politica anche quando si parla di  giustizia sociale, di aiuto ai deboli, ai poveri, ai più indifesi.   

Se il Papa non ha divisioni, eppure può e fa tanto con la forza della parola e la dedizione al suo ufficio, anche un vescovo o un prete, obbligati in questi tempi difficili a impegnarsi a mani nude e con mezzi spesso insufficienti, possono lasciare il segno della loro presenza e del loro impegno in una società, sempre più scossa da inquietudini e disuguaglianze, che ha bisogno di buoni esempi e di azioni incisive.

Lasciamo la politica a politici, si spera preparati e degni, che sappiano farsi guidare dal bene comune e non dal senso di appartenenza.

Lasciamo ai preti il diritto di suonare il campanello di allarme e di parlare il linguaggio della chiarezza ogni qual volta la politica e le Istituzioni si dimenticano di chi ha più bisogno. Senza invasioni di campo, ma anche senza pregiudizi o divieti preventivi.

 

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