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La notizia della docente che fa bendare l’allievo durante l’interrogazione in dad non riferisce qualcosa di nuovo.

 

 

 

Episodi di questo genere si sono ripetuti più volte in questo periodo di pandemia e denunciano in tutta la loro drammaticità le difficoltà che incontrano coloro che (siano essi allievi o insegnanti) sono chiamati quotidianamente a confrontarsi con i dinamismi propri della didattica a distanza. 

Sia detto in modo chiaro e incontrovertibile: bendare un allievo durante un’interrogazione è una pratica da condannare senza riserve. In maniera altrettanto chiara va però ribadito che l’interrogazione è un atto di valutazione che deve essere svolto con serietà e che non può essere influenzato da fattori che ne riducono il valore.

Il problema che si pone è pertanto quello di conciliare il sacrosanto principio del rispetto dello studente con l’altrettanto irrinunciabile principio del rigore del momento valutativo: un’esigenza pressante, di fronte alla quale la scuola sembra disorientata.

Una possibile chiave di lettura del problema (che sicuramente non serve per risolverlo, ma che può orientare la ricerca della soluzione) può essere individuata negli scopi perseguiti dall’interrogazione, i quali sono riconducibili alla verifica degli apprendimenti conseguiti dall’allievo. Il presupposto, spesso implicito, che orienta l’atto valutativo del docente è che l’allievo ha conseguito l’apprendimento nella misura in cui riesce a recuperarlo dalla sua memoria e a riferirlo nel modo più preciso possibile. Per tali ragioni, il “setting” nel quale si svolge l’interrogazione viene spesso organizzato in modo tale da impedire il ricorso dell’allievo a fonti esterne che possano fornire l’informazione richiesta dal docente. Probabilmente risponde a questo criterio l’insopportabile pratica di bendare l’allievo durante l’interrogazione (ma anche quella di rivolgere allo stesso l’invito pressante a tenere lo sguardo fisso sulla videocamera e di evitare di volgerlo altrove).

Senza voler operare generalizzazioni indebite, esiste la reale possibilità che l’origine del problema sia da ascrivere alla parzialità del criterio di valutazione appena descritto e quindi all’errata convinzione che correla il conseguimento dell’apprendimento alla presenza della relativa informazione nella memoria.

L’insufficienza di tale presupposto emerge con una certa evidenza quando si considera che una mancata risposta può dipendere non dal fatto che l’allievo non abbia acquisito l’informazione, ma all’inceppamento delle procedure di recupero della stessa dalla memoria, soprattutto quando una tale richiesta viene rivolta in un contesto che, spesso, differisce da quello nel quale quel contenuto è stato acquisito.

Allo stesso modo, il fatto che l’allievo, durante l’interrogazione, possa accedere a fonti di informazioni esterne non impedisce, di per sé, la verifica degli apprendimenti. Questo, semmai, avviene soltanto nel caso in cui l’interrogazione si limiti a rivolgere all’allievo delle semplici domande di contenuto, cioè dei quesiti che richiedano la semplice ripetizione di un concetto o l’esecuzione precisa di una procedura (domande, per intenderci, riconducibile alle formule generiche del che cos’è, chi è, come si fa).

In realtà negli ultimi decenni, la riflessione didattica sui temi della valutazione degli apprendimenti ha chiarito in maniera precisa che la verifica compiuta degli apprendimenti esige il ricorso non soltanto a domande di contenuto, ma anche a quesiti che, nel modello dell’apprendimento significativo, vengono definiti come topici e di inquadramento generale. Evidentemente non è questo il contesto per dare una descrizione compiuta di tali dispositivi di valutazione; qui ci si limiterà a dire che tali quesiti si strutturano su un impianto intenzionalmente inferenziale. Essi, cioè, si traducono in domande che non chiedono semplicemente di riferire un concetto ma che sollecitano l’allievo a partire da un contenuto noto, sia esso recuperato dalla memoria o da fonti esterne, per ricavare (cioè, inferire) da esso nuovi elementi conoscitivi. La risposta che l’allievo deve produrre rispetto a tali domande, pertanto, non è ricavabile da fonti esterne precostituite, così come non si può semplicemente ricavare dal bagaglio di conoscenze immagazzinate nella memoria. Rispetto alle richieste del compito è del tutto indifferente la fonte dalla quale l’allievo recupera l’informazione. L’atto inferenziale sollecitato da tale quesito risulta, infatti, possibile soltanto se, egli ha fatto propri (in gergo, se ha studiato approfonditamente) gli argomenti oggetto dell’interrogazione, poiché è soltanto riferendosi a esse che egli potrà elaborare una risposta compiuta al quesito proposto dal docente. Il ricorso a tali tipologie di quesito rende, del resto, del tutto superfluo attuare dispositivi che impediscano il ricorso a fonti di informazioni esterne, poiché il corretto assolvimento del compito non è immediatamente legata al modo di reperire di quel contenuto, ma alle procedure inferenziali che lo studente è chiamato a svolgere su di esso.  Per queste ragioni, bendare l’allievo durante l’interrogazione è non soltanto una pratica aberrante, ma anche didatticamente imprecisa. E con tutta probabilità porta in evidenza il fatto che, in fondo, il problema della scuola non è soltanto la didattica a distanza, ma anche le convinzioni legate a procedure che non consentono una interpretazione corretta degli apprendimenti e delle relative procedure di valutazione.

* docente associato di Didattica generale - Università del Salento

 

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