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Pubblichiamo il testo integrale della riflessione offerta ieri al clero diocesano dal vicario generale della diocesi di Lecce al termine della meditazione dell’arcivescovo durante la Giornata sacerdotale vissuta ieri a Roca dal presbiterio locale.

 

 

 

PREMESSA

Colgo l’opportunità di questa bella e importante ricorrenza del 70mo compleanno del nostro Arcivescovo non per fare un bilancio dell’attività pastorale ma semplicemente un semplice focus sulle priorità emerse nei tre anni e mezzo appena trascorsi del suo ministero episcopale fra noi.

PRIORITÀ EMERSA: UNA MAGGIORE COMUNIONE ECCLESIALE

Sin dai primi giorni a Lecce, mons. Seccia, e noi insieme con lui, abbiamo individuato alcune priorità pastorali. Dobbiamo distinguere le “priorità” dalle emergenze.  Le priorità rientrano in un progetto pastorale. Le emergenze nella contingenza del tempo e in questo anno e mezzo di pandemia di emergenze ce ne sono state tante.

Il ministero pastorale inaugurato da mons. Seccia ha subito agganciato come priorità la necessità di una maggiore comunione ecclesiale: tra noi presbiteri e fra tutte le componenti ecclesiali.

Detta così, una maggiore comunione, sembra una priorità generica, come “la pace del mondo”. In realtà una maggiore comunione diventa una priorità in questo contesto sociale ed ecclesiale dove non ci sono più gli ammortizzatori della cristianità, che fino a 50 60 anni fa in un modo o nell’altro fungevano da sostegno e da supplenza a tante carenze.

Dopo qualche mese di attenta osservazione, mons. Seccia ha messo in atto un metodo di lavoro pastorale incentrato sulla collaborazione, non ristretta, ma ampia, che, di fatto, riflette lo stile della sinodalità. Infatti, la comunione ecclesiale ha bisogno di sinodalità ecclesiale. Comunione e sinodalità sono due realtà teologiche che si attuano anche attraverso gli organismi di partecipazione.

Per questo motivo sono stati rinnovati, da subito, il consiglio presbiterale, il consiglio episcopale, il consiglio pastorale diocesano. Il consiglio pastorale diocesano, al contrario di quello presbiterale ed episcopale, è stato convocato solo poche volte, a causa del sopraggiungere della pandemia.  Appena le situazioni lo permetteranno, anche il consiglio pastorale diocesano dovrà riprendere il suo lavoro con regolarità.

VERIFICA

Sicuramente non basta solo istituire gli organismi di comunione, occorre anche che funzionino al meglio, per questo occorre che ci crediamo un po’ di più, e ognuno faccia la sua parte: soprattutto parteciparvi non come rappresentanti di se stessi ma di coloro che ci hanno dato il mandato e ai quali dobbiamo dar voce.

La sinodalità non può essere funzionale a degli obiettivi da raggiungere ma è essa stessa l’obiettivo entro il quale possono trovare attuazione molteplici progetti e attività.

Mons. Seccia sin dall’inizio del suo ministero a Lecce, sta cercando di sottolineare questo principio che la comunione e la sinodalità sono fini a se stesse, mettendo al fondamento di tutto il nostro agire pastorale l’Eucaristia, che è di fatto la fonte ispiratrice e il criterio di discernimento dell’agire ministeriale nel quotidiano, criterio nelle scelte pastorali e nel modo di relazionarci con le persone.

Questo criterio ha cercato di condividerlo con noi e con tutti gli operatori pastorali soprattutto nel prolungato tempo della pandemia, da cui ancora non siamo usciti. Durante il primo lockdown, quando vi era l’assoluto divieto di partecipazione fisica nelle parrocchie, mons. Seccia, ha sempre fatto leva sulla passione e creatività pastorale presente in ciascuno di noi, i soli elementi che ci consentivano di continuare a fare attività spirituale e pastorale. Questa passione e creatività pastorale, che non bisogna scambiare con l’estro soggettivo e l’iperattività, è un dono divino che scaturisce da un forte amore per l’Eucaristia e per la Chiesa. In altri termini, al di là delle cose che un parroco può fare o non fare, soprattutto in circostanze così gravi come la pandemia, ciò che conta è far capire alle persone che il Signore continua ad agire anche quando noi siamo costretti a stare fermi; che la grazia divina raggiunge il cuore delle persone anche in modalità straordinarie. Di qui l’invito del nostro vescovo a tutti noi di lasciare le chiese aperte, di mantenere i contatti con le persone. Quando è stato possibile tornare alle celebrazioni in presenza, celebrare i sacramenti nelle forme più idonee, egli ci ha esortati a tenerci lontani da un rapporto burocratico e dal pensare “si è sempre fatto così”. Egli ci ha sempre invitati, ad esempio, ad ascoltare le persone anche quelle che fanno fatica ad accettare le disposizioni canoniche.

Dunque, la comunione non può mai essere funzionale a qualche altro anche se nobile obiettivo, così come la celebrazione dell’Eucaristia non può essere funzionale all’inaugurazione di un campo di calcio. Al contrario, tutti gli altri obiettivi devono avere sempre un fondamento e una finalità eucaristica.

Le due lettere pastorali: Ascolta Popolo mio e Chi spera in Dio non resta deluso, la forza della speranza, di cui l’arcivescovo ha fatto dono alla nostra Chiesa di Lecce, sono l’eco di questo bisogno di sinodalità: l’ascolto come movimento sistolico e la forza della speranza come momento diastolico; per camminare insieme stringersi in unità d’intenti, per poter poi aprirsi alla missione.

La priorità della sinodalità, individuata dal nostro vescovo, oggi è una priorità della Chiesa universale, così come ha profeticamente intuito Papa Francesco. Si riparte dunque dal Sinodo di tutte le Chiese. Sinodo non come celebrazione di eventi, come ha giustamente precisato il presidente della Cei, card. Bassetti, ma come percorso, come cammino nella realtà mistica della Chiesa perché la Chiesa possa essere seme di speranza nel mondo di oggi con tutte le sue complessità. 

Il cammino sinodale che tutte le Chiese sono chiamate a fare, può essere per noi una grande opportunità di ripartenza. Ripartenza dopo la pandemia ma soprattutto ripartenza come bisogno intrinseco di rinnovamento. Il momento storico ce lo chiede. Ripartire dalla gente, ripartire dalle persone come singolarità irripetibili. Mettere da parte la pastorale che considera le persone numeri, quantità.

Ma mettere da parte anche il nostro personalismo. Stare attenti a non scambiare la ripartenza come un rifare tutto come prima e più di prima, quasi che ciò che conta è rimettere in piedi feste, devozioni, gite, sagre. Qui c’è da rimettere in piedi la fede, la speranza, la carità. 

È la pastorale dell’accoglienza, dell’accompagnamento delle persone, del primato dello spirituale, che deve rimodulare, semmai, quelle cose prima elencate.

Anche noi dobbiamo scoprirci o riscoprirci come opportunità per le comunità. A volte rimaniamo vittime di noi stessi, di una visione pastorale legata al determinismo del “si è fatto sempre così”.  Uscendo dalla pandemia abbiamo capito ancor meglio ciò che sempre sapevamo, vale a dire, accogliamo le persone come persone, anzitutto, non lasciamoci condizionare da stereotipi di carattere morale, religioso, culturale, sociale.

Crediamo un po’ di più negli organismi di comunione che sono anche organismi di sinodalità, quelli diocesani e quelli parrocchiali. Facciamoli funzionare per quello che sono, non per come servono a noi.

È anche interessante rivedere, i rapporti di amicizia fra noi presbiteri, amicizia che è di per sé un grande bene. Ma spesso può diventare una specie di area protetta, rassicurante, che indebolisce il bisogno e il desiderio di relazionarci con l’intero presbiterio.

Quale è stata la risposta a questa priorità di comunione nella sinodalità proposta dal vescovo?  Dobbiamo ammettere che ci siamo lasciati spesso condizionare dal nostro individualismo, la priorità della comunione è stata filtrata non poche volte da una visione molto personale, condizionata da giudizi e umori che di fatto rendono la stessa comunione più un fatto formale, di cornice e non sostanziale. A volte il bene comune viene sacrificato a interessi particolari. Rimane il fatto che abbiamo continuato a lavorare alacremente. Nella fase della pandemia, poi ognuno ha fatto quello che poteva.

Noi non dobbiamo mettere in dubbio l’intensità del nostro lavoro pastorale, che è tanto, né la nostra volontà, né le nostre qualità, competenze, che sono davvero tante e diversificate.

È lo scenario che è cambiato. In verità, la pandemia ha solo scoperchiato come fa una tempesta, un modello di pastorale che il Concilio Vaticano II aveva già individuato come inadeguato.

In sostanza, i modelli pastorali a cui ci rifacciamo sono quelli tridentini, molto efficaci per conservare la fede della cristianità, vale a dire conservare una Chiesa che corrisponde pressappoco alla società civile.

Non è più così da diversi decenni, e lo sappiamo tutti, ma continuiamo a tenere in piedi una pastorale della conservazione di che cosa, non lo sappiamo neppure noi stessi, o perché non ce lo chiediamo o perché non abbiamo il tempo per chiedercelo, in quanto troppo incanalati nelle cose da fare già predefinite.

A volte siamo presi dallo scoraggiamento, perché tocchiamo con mano come la nostra attività pastorale, di sacramentalizzazione soprattutto, assomiglia a un versare acqua in un secchio bucato. Ci rendiamo conto allora come il bisogno di maggiore comunione, invocato dal Vescovo, corrisponde a un bisogno di conversione pastorale, conversione che non può avvenire solo sul piano individuale, ma sul piano comunitario.

RIPARTENZA

Quindi dobbiamo ripartire non nonostante la nostra fragilità, personale e comunitaria, ma ripartire dalla nostra comune fragilità. E quando parlo di fragilità comunitaria tengo presenti anche gli attuali organismi di comunione, che se pure istituiti e funzionanti rivelano certamente tante carenze.

La nostra fragilità, personale e comunitaria non deve essere giudicata, neppure rimossa, ma abitata dalla comune speranza cristiana che è il Signore che costruisce la casa, che poi è la sua casa, costruisce la sua comunità.  Più la coscienza e la gioia di essere servi del nostro comune Signore alimenterà il nostro ministero più il senso della comunione e lo stile sinodale caratterizzeranno la pastorale della nostra Chiesa.

Io non ho bisogno di aggiungere altro. Questa mia riflessione ha lo scopo soltanto di avviare una riflessione ancora più ampia, più partecipata, più articolata per ripartire con il piede giusto. Per questo dobbiamo lasciarci aiutare da maestri che più di noi e per noi hanno esplorato l’ambito della ripartenza pastorale nell’ottica della sinodalità, avere più occasioni di incontro tra noi per un confronto a tutto campo e far funzionare meglio gli organismi di comunione a livello diocesano e parrocchiale.

 

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