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Il 50° di presbiterato di Pierino Liquori è occasione di testimonianze di amicizia che sono anche riflessioni di sintesi sulla sua figura, a partire da relazioni personali intense.

 

 

 

Mi permetto di aggiungere alle tante e più autorevoli, la voce di un laico che, negli anni finali dell’episcopato di mons. Minerva e in quelli iniziali di mons. Mincuzzi, faceva parte di una delle comunità giovanili seguite da don Pierino, vice-parroco della parrocchia di S. Giovanni M. Vianney: uno, cioè, dei “giovani di don Pierino” come dicevano gli altri suoi confratelli.

E questa mia testimonianza, pur personale, vuole però essere, in qualche modo, riconoscente espressione di una sensibilità condivisa, ancora oggi, con altri amici e amiche, che di quel gruppo giovanile (la Comunità ecclesiale di base Cenacolo) hanno fatto parte.

E, per essere sintetico, vorrei indicare in tre parole-chiave quelle che a me sembrano le cifre essenziali della personalità di don Pierino, almeno nei nostri confronti: annuncio, fraternità, sacerdozio.

 

ANNUNCIO

Don Pierino ci ha accolti con amicizia: giovane lui, non ancora trentenne, più giovani noi. E ha stabilito questa autentica relazionalità amicale che non era, sempre, giuliva e pacifica: personalità forte lui, personalità in formazione noi, tutti con una certa impulsività giovanile. Con facilità si passava dal sorriso disteso al volto rabbuiato: in modo franco e diretto. Ma, insomma, una relazione vera, viva e vivace, con le turbolenze e gli alti e bassi, e perciò via via sempre più intensa e più forte.

In questa amicizia, in questa paritaria condizione di reciprocità, don Pierino ha innestato un Annuncio, che per quasi tutti noi è stato ed è ancora il senso di tutto, sul quale perciò si può scommettere l’intera vita. L’amicizia vera era condizione di fiducia e disponibilità all’ascolto: ma da sola non sarebbe bastata. L’Annuncio ci è stato portato con il nostro linguaggio di allora, al nostro livello, così da intridere i momenti concreti dell’esistenza e non essere qualcosa di giustapposto, estrinseco, staccato. Espresso, dunque, in modo comprensibile, in lingua corrente, ma sul respiro perenne della Parola. Noi non abbiamo avuto, in realtà, un catechismo (era allora in gestazione, ma non c’era ancora, il Catechismo dei giovani): siamo stati buttati direttamente nell’ascolto della Parola. Don Pierino - che doveva essere il nostro ‘catechista’ - ci diceva che prima dei catechismi, ci sono i catechisti, ma prima dei catechisti c’è la comunità: e la comunità o si fonda sulla Parola o non è comunità ecclesiale. Al centro della nostra esperienza, pertanto, vi era l’incontro settimanale comunitario con la Parola, sulla Parola: non per l’ascolto del commento di don Pierino, ma per l’ascolto del commento del nostro cuore. Ognuno di noi era chiamato a confrontare la propria vita reale, nella verità della propria coscienza, nell’onestà del proprio cuore, con la Parola che era stata proclamata. E lì, per ciascuno di noi, fioriva l’annuncio e, sì, potevamo accoglierlo e aprire il nostro cuore a quel cammino. La fede non come ideologia, come dogmi da credere, come comandamenti e obblighi da seguire: ma come cammino di liberazione, che ti fa perciò più libero e ti dà la forza per puntare sulla parte migliore di te. E don Pierino perciò non è stato l’annunciatore, ma il propiziatore e il servo dell’annuncio. Che è risonato poi da solo, per la sua stessa forza vitale, in ciascuno e in ciascuna.

FRATERNITÀ

L’annuncio innestato nella nostra amicizia – la più vera e disinteressata amicizia: quella che si vive da giovani – la trasformava in fratellanza e sorellanza. Certo, innanzi tutto tra di noi. E se dopo decenni ci vogliamo ancora bene, vuol dire che quel seme ha portato frutti. Ma poi anche, per la sua stessa forza e dinamica, verso i poveri, soprattutto, e verso tutti coloro che soffrono. Potremmo dire che quello che afferma ora papa Francesco nell’Enciclica Fratelli tutti era già allora ben presente nella nostra esperienza comunitaria: attenzione ai tanti problemi umani della periferia, accoglienza delle persone in difficoltà, inclusione dei diversamente abili. Insomma l’amore sociale: il Vangelo del Buon Samaritano. Questo – nel contesto di personalità giovani e nell’atmosfera sociale e politica di quegli anni – poteva rappresentare un rischio: ma il rischio andava corso. La libertà evangelica non si può comandare: è un comando impossibile. Se si comanda, già solo per questo, la si distrugge. E allora la libertà evangelica è un rischio – personale e comunitario – un rischio che va corso. Come con il seme del seminatore potrà cadere sulla strada, sulla roccia, tra le spine, ma anche sul terreno buono. E dare frutti di amore sociale. E qui sta il senso vero dell’amore sociale, che don Pierino ci indicava: un cristianesimo senza amore sociale è vuoto, è sepolcro imbiancato, è recita, è perfino oppio dei popoli; un cristianesimo solo amore sociale è cieco, devitalizzato, appiattito, comunque conformistico. E allora l’amore sociale doveva essere sempre transustanziato nell’eucarestia, nella liturgia che ne è culmine. Tutti sanno della grande attenzione di don Pierino per la liturgia: ma non per la liturgia come il momento rituale della vita cristiana. Bensì come la vita cristiana stessa – tutta intera – offerta e transustanziata. E perciò senza ritualismi, senza rubricismi, senza raffinatezze estetizzanti fine a sé stesse. L’estetismo uccide la bellezza della liturgia, che invece risplende e rifulge nell’offerta dell’amore sociale vissuto e nell’accoglienza della comunione salvatrice. E, ancora, liberatrice.

 

SACERDOZIO

E questa liturgia è possibile se a celebrarla siamo tutti, in forza del sacerdozio comune battesimale. Altra indicazione essenziale che a me, a noi, è venuta da don Pierino: il Concilio Vaticano II come guida ad assumere la propria responsabilità tutta intera. E perciò l’eliminazione preventiva e perenne di ogni separazione ‘castale’ tra clero e laici, la lotta contro ogni clericalismo come malattia della Chiesa e caricatura del sacerdozio ministeriale. Da allora non uso mai la parola sacerdote per indicare il presbitero: perché sacerdoti siamo tutti, battezzati e battezzate. E il sacramento dell’ordine - quello che 50 anni fa ricevette don Pierino - va perciò, nel suo quotidiano esercizio, declericalizzato. Questa, se ci pensiamo, è la principale e grande riforma cattolica indicata dal Concilio Vaticano II. E, come spesso ci ricorda papa Francesco, non è un compito che sta dietro di noi, un obiettivo già realizzato: no, c’è ancora molto da fare. Dagli anni a S. Giovanni M. Vianney ho avuto varie esperienze di parrocchie e di diocesi. E dappertutto ho trovato che il cammino è ancora lungo. Eppure noi, giovani e allora inesperti, abbiamo vissuto un’esperienza ecclesiale, certo con tanti limiti, ma sicuramente non clericale. Pur facendo conoscenza e amicizia, tramite don Pierino e con don Pierino, di altri presbiteri: da don Vito De Grisantis a Padre Alessandro Zanotelli, da don Marcello Semeraro a don Antonio Fallico, da don Gaetanino Tornese a don Gigi Manca. Non abbiamo mai sperimentato l’autoritarismo clericale come ‘forma comunitaria’. Non abbiamo mitizzato nessun prete: neppure don Pierino. E per questo siamo stati e siamo capaci di volergli bene, in modo genuinamente umano e libero e grato. Cioè in modo cristiano. Con la riconoscenza per quello che ha fatto per noi, suoi fratelli e sorelle minori.

 

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