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Per noi, suoi primi ed ora anziani parrocchiani di Santa Rosa, è rimasto semplicemente ‘don Salvatore’. Era Lui stesso a farcelo capire con quel sorriso ammaliante col quale manifestava quasi imbarazzo quando, da vescovo, lo si chiamava ‘eccellenza’ o da cardinale ‘eminenza’.

 

 

Perché, don Salvatore è rimasto sempre lo stesso: semplice nei gesti, severo nella difesa dei principi irrinunciabili, oratore suadente, pronto a dare consigli e ad affrontare le situazioni più impreviste.

È come se fosse ieri, quando da giovane cronista, assistetti alla posa della prima pietra della chiesa di Santa Rosa: una giornata flagellata da vento e pioggia, col vescovo mons. Minerva, seguito come un’ombra dal suo segretario, don Salvatore De Giorgi nel muoversi, tra massi di terra e sconnessi percorsi improvvisati.

Stava per nascere il quartiere Santa Rosa, nell’ambito del piano casa che porta il nome di Amintore Fanfani, un gioiello, all’epoca di impostazione urbanistica con slarghi, porticati e piazze. E sorse pure lo stupendo tempio, eretto a oarrocchia col titolo di Santa Maria delle Grazie in Santa Rosa. L’inaugurazione del quartiere fu fatta, in un tripudio di folla, dallo stesso Fanfani, divenuto, da ministro per la casa, Presidente del Consiglio.

Il primo parroco fu lui, don Salvatore. Correva l’anno 1958. Noi fummo i suoi primi parrocchiani. Essere il primo parroco di una chiesa nuova in un quartiere appena creato e formato da famiglie eterogene provenienti dalle più svariate zone della città non era facile perché si trattava di far coesistere mentalità e ceti sociali diversi in una realtà tutta da esplorare. Ma don Salvatore ci riuscì, aggregando giovani, riunendo famiglie, facendoci sentire tutti componenti di una società e di un quartiere che era il fiore all’occhiello prima di scadere oggi, purtroppo, in uno dei punti critici per incuria e disinteresse.

Furono cinque anni intensi, poi la nomina a vescovo di Oria e la splendida carriera che lo avrebbe portato al soglio cardinalizio da arcivescovo di Palermo.

In questi lunghi anni mi è capitato spesso di incontrarlo sul volo Roma-Brindisi perché, quando poteva, tornava nella sua Vernole.

Un incontro, oltre 20 anni fa, fu per me particolarmente toccante: ci trovammo fianco a fianco sull’aereo, lui, all’epoca, era Assistente generale dell’Azione cattolica italiana. Era una domenica. Io avevo lasciato a metà la gara Lucchese-Lecce, chiedendo ad un collega di sostituirmi nel resoconto e stavo rientrando in fretta, preoccupato per le condizioni di salute di mia madre, che gli confidai. Ebbe suadenti parole di conforto e di incoraggiamento che mi aiutarono tanto il giorno dopo quando mia madre andò in coma senza più risvegliarsi. Gli mandai un messaggio per ringraziarlo e mi rispose con parole che solo lui sa usare.

Tanti altri incontri sull’aereo, tanti saluti fugaci, con la semplicità che lo caratterizza.

L’ultima volta che l’ho visto - 8 anni fa - era in prima fila, quasi raccolto in se stesso, rispose quasi frettolosamente al mio saluto mentre andavo ad occupare il mio posto, due file dopo di lui.

Era l’epoca in cui, su nomina di Papa Benedetto, faceva parte della commissione incaricata di indagare sulla fuoriuscita di documenti e lettere riservati del Vaticano insieme ai cardinali Julián Herranz Casado e Jozef Tomko, meglio nota quale commissione “Vatileaks”. Era un incarico delicatissimo, tanto che all’arrivo a Brindisi, sotto la scaletta dell’aereo, c’era un’auto della Polizia che lo avrebbe scortato sino a Vernole. Scese la scaletta a testa bassa quasi impacciato, lui che all’aeroporto di Brindisi era solito arrivare come un comune passeggero rispondendo ai saluti di quanti lo riconoscevano.

Perché don Salvatore, per la sua impostazione mentale, dentro di sé e per noi, è rimasto quel parroco semplice, ma discreto, convincente nel modo di porsi, ma nello stesso tempo geloso custode, difensore di valori eterni e impegnato nella costante ricerca della verità.

Novant’anni, ma non li dimostra. Don Salvatore, tanti auguri da un tuo vecchio parrocchiano!

 

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