Si è tenuto ieri sera, presso la parrocchia di San Bernardino Realino in Lecce il convegno diocesano in preparazione alla XXXIII Giornata mondiale del malato, evento promosso dal direttore dell'Ufficio diocesano per la pastorale della salute, don Gianni Mattia, sul tema "La speranza dentro la vita".
Tra il folto pubblico presente vi erano numerose persone, giovani e anziane, che con la loro presenza, hanno condiviso la serata improntata sulla testimonianza di coloro che vivono da persona malata, sofferente o che hanno subito la sofferenza per la perdita di una persona cara. Toccanti le testimonianze di speranza nel dolore di Simona De Simone, dei coniugi Irene Buttazzo e Luca Palma e di Virginia Campanile su come rendere viva la gioia di essere salvati, dal naufragio della malattia, nelle tenebre della sofferenza che nascondono la fede. Insieme a loro, operatori sanitari, socioassistenziali, membri dell’associazione “Cuore e mani aperte”, operatori pastorali, religiosi, ministri straordinari dell’Eucarestia, diaconi, volontari e tante altre persone convenute hanno ascoltato le loro storie, tutte diverse tra loro non solo per cosa sia accaduto e in quale condizione si trovino attualmente, se in una fase successiva o in un cammino ancora irto da percorrere o agli inizi, ma soprattutto per il modo di affrontare la loro esperienza di fragilità, il loro coraggio e la loro speranza.
Dopo un breve momento musicale, a cura dei maestri Marco Bruno Ferulli e Giusy Zangari, don Gianni (che ha moderato l’incontro) dopo i saluti iniziali ha aperto e introdotto il tema del convegno, sottolineando all’uditorio che “la speranza disegna sprazzi di cielo limpidi, lì dove l’oscurità vuole inghiottirci”. Successivamente, l’attenzione dei partecipanti si è concentrata sulla relazione presentata dall’arcivescovo coadiutore mons. Angelo Raffaele Panzetta, il quale si è soffermato sul rapporto della speranza nella Sacra Scrittura come “speranza teologale, quella che costituisce l’asse della nostra vita. La speranza è un atteggiamento, un modo di stare al mondo, che nasce all’interno di una relazione - quella con Dio - dove si sperimenta il suo amore fedele, facendoci guardare al futuro con occhi positivi. Questa idea dell’Antico Testamento ci fa capire e ci fa intuire la radice dell’ospedale di oggi, che è l’amore. Oggetto di speranza cristiana è la Pasqua di Gesú”.
Accompagnare persone che soffrono chiede speranza da una parte e fortezza dall’altra, due virtù più che mai necessarie in un tempo di travaglio quando si è colpiti da una malattia.
Sia la speranza, virtù teologale, quindi frutto della grazia, sia la fortezza, una delle virtù cardinali, quelle essenziali per una vita umana pienamente matura, coinvolgono pienamente gli affetti. “La speranza - ha concluso Panzetta -, quando entra nella vita di una persona, produce due frutti invisibili (cit. San Tommaso d’Aquino) l’amore e la preghiera: quando la speranza c’è, alimenta la capacità di amare. Quando la nostra preghiera è vera, cambia la nostra vita, genera un cambiamento profondo dentro di noi. Uno dei frutti più alti della speranza nel Nuovo Testamento è la resistenza, ovvero la capacità di affrontare le avversità, la capacità di resistere agli urti della vita, la capacità di rimanere combattivi e di non arrendersi mai”.
Toccanti sono state le testimonianze che si sono susseguite. Testimonianze di vita che parlano più della teoria, la carne parla più dei libri e gli occhi degli uomini e delle donne lasciano delle tracce visibili e significative.
La prima è stata quella di Simona De Simone che ha lasciato un segno di militanza della speranza, una donna che lotta in quanto affetta da epidermolisi bollosa distrofica congenita e rara - o sindrome dei bambini farfalla - perché come le ali delicate di una farfalla così la sua pelle è molto fragile. Emozionanti le sue parole “senza Dio non esiste né un futuro né una speranza per noi uomini. Solo in lui possiamo trovare la serenità dei cuori, più che non la guarigione fisica. La serenità dei cuori è molto più importante di qualsiasi guarigione fisica, perché con Dio nel nostro cuore e con il Suo aiuto, riusciamo ad affrontare ciò che per noi sembra impossibile; perché insieme a Dio scompare la paura del dolore, la paura di resta soli. È anche per noi, persone con qualche handicap, riusciamo a compiere delle piccole opere buone, di amare gli altri anche se, la salute del corpo è compromessa. Fidiamoci del Signore senza nessuna riserva. Lui rimane il nostro unico amore vero, quello che non tramonterà mai”.
Successivamente sono stati i coniugi Irene e Luca Palma che hanno raccontato la loro esperienza nel dolore, ma con una speranza incrollabile. Irene e Luca sono una coppia felice, una famiglia felice con due bambine. Irene è in attesa del terzo figlio, il tanto atteso maschietto e mentre eseguiva il normale check up di chi è in dolce attesa, il medico si accorge che c’è qualcosa che non va nel feto che porta in grembo. Dopo diversi consulti e diverse ecografie, la diagnosi è anencefalia. Per i medici era assolutamente inutile portale avanti la gravidanza. Dentro di lei però sentiva il richiamo alla vita eterna, facendo sorgere diversi interrogativi “chi sono io a dire di no? Chi sono io a decidere se farlo nascere oppure no?” Con non poco impegno hanno trovato un medico che ha appoggiato la loro follia, quella di portare a termine la gravidanza e con la speranza di conoscere questo bambino. È così è stato, “questo bambino Michele, - dice Irene - è arrivato alla fine della gravidanza a quarantadue settimane, contrariamente a quello che dicevano i medici, è nato da parto naturale. Ma la cosa più strabiliante è vissuto quasi due giorni, respirando e alimentandosi autonomamente, stringendomi forte le mie dite quando l’ho preso in braccio. È stato lui la vera testimonianza per chi l’ha visto. Tutti hanno potuto vedere la speranza di una vita eterna, di una vita che non è mai una vita vuota o una vita che non serve a nulla. Dio, nel suo immenso amore ci ha dato la possibilità di incontrare in questo piccolo bambino, imperfetto per il mondo, il suo enorme amore per noi e per la nostra famiglia e che, dopo la morte di Michele non ci siamo chiusi in noi stessi. Oggi abbiamo sette figli di cui due sono in cielo”.
A chiudere il ciclo delle testimonianze è stata Virginia Campanile presidente e fondatrice dell’associazione “Figli in Paradiso, ali tra cielo e terra”, creata dopo la nascita al cielo di Daniele, il suo figlio primogenito. Virginia, elaborando il suo lutto, racconta “Mi trovavo nella veste di orfana di mio figlio. E di figlia che aveva perso sua madre, perché insieme con Daniele dopo poche ore muore mia madre, di dolore. Da subito ho promesso che avrei condiviso questo dolore, con persone con il mio stesso dolore. Non sapendo cosa avrei fatto del mio dolore, ho bussato alla prima porta, a me stessa per vedere la mia condizione di mamma, mutilata amputata, orfana di mio figlio”. E così decide di accostare altre madri con la stessa esperienza e di creare un cerchio virtuoso capace di contribuire all’uscita dall’isolamento individuale e alla ricostruzione della propria vita.
Photogallery di Arturo Caprioli