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Sono immagini semplici, quelle proposte da Piero e Giampiero Buonsante di WebTVPuglia, eppure molto significative.

Nei fotogrammi di un video, della durata di poco più di tre minuti, si è cercato di condensare alcuni tra i principali momenti del giubileo oronziano turese, dall’apertura della porta santa sino all’ostensione della piccola reliquia donata dall’arcidiocesi zaratina. Ripercorrendo con la memoria quegli eventi, è doveroso ammettere come l’atmosfera di revival oronziano che, dallo scorso anno, si respira a livello regionale abbia avuto, tra gli altri, un merito innegabile: quello di allargare gli orizzonti del dibattito intorno alla figura del patrono di Lecce.

A partire dagli anni ʼ70 infatti, la questione sul protomartire salentino si era essenzialmente configurata come una diatriba tra “oronzofobi” ed “oronzofili”. Un duello accademico fra i negatori della storicità del personaggio e i difensori ad oltranza dei dati tradizionali. Certo, entrambi gli schieramenti potevano annoverare voci autorevoli che hanno offerto sul tema contributi di studio importantissimi. Tuttavia, con lo scorrere degli ultimi decenni, polarizzatasi in tal modo, la questione oronziana aveva finito quasi per banalizzarsi.

Invece, la riflessione sul nostro santo è qualcosa di molto più ampio e profondo della pur fondamentale ricerca sulla verità storica della sua figura. Perché, in fondo, conoscere Sant’Oronzo significa conoscere noi stessi. Esplorare le vicende legate al suo culto, al diffondersi della sua agiografia, alla produzione iconografica a lui dedicata nel passato come nel presente, equivale a compiere un affascinante viaggio nella nostra stessa anima e nell’anima della nostra terra. Che piaccia o meno, il nome di questo martire è impresso a chiare lettere nel dna culturale di ogni leccese, turese, campiota, surbino, ostunese o botrugnese. E nessuno può cancellarlo. Chi potrebbe trovare le parole per descrivere la comunione profondissima che ha sempre legato il santo alle comunità che si riconoscono come sue figlie? Per secoli, nelle contrade pugliesi, i bambini sono stati battezzati col suo nome, gli sposi hanno celebrato il proprio matrimonio ai piedi dei suoi altari, i malati sono stati unti con l’olio delle lucerne a lui consacrate, i sacerdoti lo hanno invocato nelle circostanze più difficili e benedetto nelle ricorrenze più gioiose. La sua immagine era presente nelle case, adorna di fiori freschi o candele, ha accompagnato oltreoceano i nostri emigranti e nelle trincee delle guerre mondiali i nostri soldati. È un autentico, profondissimo, legame di sangue il vincolo che ci unisce al nostro patrono e che identifica in lui il nostro patriarca, ponendolo al vertice dell’albero genealogico spirituale che ci ha generato.          

         

                                                                                                                                  

 

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