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Di recente, sono tornato da Cracovia, con gli accompagnatori dell’associazione Treno della Memoria, un’esperienza volta a non dimenticare una delle pagine più tragiche dello scorso secolo: la Shoah.

 

 

 

Nella prima giornata, abbiamo visitato la città vecchia di Cracovia, uno dei più affascinanti centri storici d’Europa, dal 1978 patrimonio Unesco, dall’ingresso in Via San Floriano, fino alla collina Wawel, primo nucleo della città. Durante la visita, abbiamo anche incontrato i posti cari a Papa Giovanni Paolo II, durante i suoi soggiorni nella città, come il palazzo vescovile, dove risiedeva, e la basilica di San Francesco d’Assisi. Papa Karol considerava questa basilica il prototipo ideale di Chiesa, silenziosa e modesta, dove il contatto con Dio è assicurato.

Il giorno seguente, siamo giunti, in prima mattina sul luogo dove sorgeva il campo di concentramento di Płaszow: rimanevano soltanto le macerie dell’obitorio e di alcune matzevah (lapidi) del cimitero ebraico preesistente. Questa vista mi ha fatto pensare a solo un possibile movente per le azioni dei nazisti: la cancellazione totale di una cultura.

Il terzo giorno, il più impegnativo fisicamente ed emotivamente, fu il turno dei tristemente celebri campi Auschwitz I e Auschwitz II-Birkenau. Il primo è stato adibito a museo e ospita nelle varie baracche restaurate reperti rinvenuti dalle forze dell’Armata Rossa, durante la liberazione dei campi. Tra questi vi sono resti di capelli, valigie, vestiti, occhiali, scarpe… In genere, è dagli effetti personali che possiamo riconoscere una persona, darle un nome. Invece, questi oggetti strappati ai loro possessori, mescolati alla rinfusa con migliaia di altri, perdevano la loro identità, erano anonimi. Qui vi è la distruzione di una persona, della sua dignità. Le parole di Primo Levi si fanno sentire in tutto il loro peso: “considerate se questo è un uomo”.

Ad Auschwitz, vi è anche il famigerato blocco 11, anche noto come blocco della morte, una sorta di prigione nella prigione, dove venivano reclusi gli internati per scontare pene di vario tipo, come quelle di “responsabilità collettiva”. Una celebre vittima di questo sistema fu Padre Massimiliano Maria Kolbe, francescano polacco deportato ad Auschwitz: egli si offrì al posto di un padre di famiglia destinato insieme ad altri al bunker della fame, dopo la fuga di un prigioniero. Le SS, notando che resisteva alla morte, nonostante il digiuno, lo giustiziarono con un’iniezione letale. Ora, nella cella in cui Padre Kolbe venne recluso, vi è un cero, posto lì nel 2004 da Papa Giovanni Paolo II.

Da fedele nella parrocchia di San Massimiliano Kolbe di Lecce, non potevo non soffermarmi sulla porta di quella cella e rivolgere una preghiera affinché non si dimentichi ciò che è stato. Questi eventi, benché orrendi, devono rimanere scolpiti nella nostra memoria e dobbiamo imporci il dovere di tramandarli alle prossime generazioni. Ricordare è un imperativo, perché non avvenga mai più nulla di tutto questo.

 

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