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Da qualche tempo un manifesto pubblicitario di discrete dimensioni arreda la vetrina di una nota pasticceria salentina nel centro di Lecce, con una sorprendente immagine che reclamizza un prodotto tipico del Salento: il pasticciotto.

 

 

 

Ebbene, la trovata appare come una delle più assurde costruzioni iconografiche che, a prima vista, potrebbe anche essere accettata con un benevolo sorriso, se rientrasse nell’ambito di una goliardia da provincia. Utilizza, infatti, un linguaggio iconografico attinto a piene mani da un collaudato repertorio proprio delle arti figurative ricadenti nella produzione di arte sacra. Chi l’ha ideato e realizzato, con una precisa finalità, sapeva bene di giocare in casa, ricalcando lo schema compositivo assai comune della pala d’altare, peraltro diffondendo l’immagine, in primo luogo, in un centro cittadino che tradizionalmente, per ovvie ragioni storiche, ha acquisito nel tempo l’etichetta di “città chiesa”.

In alto, sulla sinistra, appare la figura di Gesù Cristo su un ammasso di nuvole, che, ritratto di tre quarti, guarda verso il centro dell’opera. Diametralmente all’opposto, sulla destra, Maria, è raffigurata anch’essa su un ammasso di nuvole, in atteggiamento di advocata nostra e si rivolge supplice verso il centro dell’opera. In basso, a destra, è riprodotta la figura di una giovane mediatrice nelle apparenti sembianze di una pastorella (ma con non poche varianti), la quale sostituisce quella consueta del committente dell’opera, che appunto compare solitamente nelle opere di argomento religioso. Al centro, laddove ci si aspetterebbe la figura dell’Eterno Padre, magari con la colomba, o quella di un Santo, campeggia la riproduzione del pasticciotto, con relativa aureola, attributo iconografico peraltro non utilizzato per le immagini di Gesù Cristo e di Maria. Per chiarire tutto, una scritta nella parte inferiore: «Santo Pasticciotto/Patrono del Salento».

Ebbene, la trovata (forse anche contrabbandata come un intervento artistico originale) potrebbe essere giustificata come una scherzosa antireligiosità, priva di malizia, che cavalca i confini tra fede e creduloneria.

Ma a ben riflettere le cose non stanno così, perché le finalità sono quelle di pubblicizzare un prodotto alimentare utilizzando un linguaggio appartenente a chi ha il diritto di essere tutelato nelle sue scelte religiose anche se possono sembrare non condivisibili ed apparire prive di valore.

È chiaro che l’uso di un repertorio iconografico facilmente riconoscibile è voluto, con l’inserimento di un transfert che non crei scompensi comunicativi nell’immediato, ma soltanto in un tempo ragionevolmente breve, allorquando l’osservatore si accorge che al posto del santo c’è il prodotto messo in vendita, che deve essere acquistato “religiosamente” e gustato con venerazione per le sue qualità taumaturgiche. Il gioco è semplice ed assai collaudato nell’ambito pubblicitario. Infatti, in Italia, nella pubblicità che utilizza il sostrato “cattolico” c’è di tutto. Basti ricordare lo spot, ormai datato, delle suore che davanti alle caramelle Sperlari cadono miseramente nel peccato di gola oppure a quello della comunità di frati francescani, tutti ben ordinati nel coro del convento, pronti a ricevere dal padre celebrante il Bronchenolo sciroppo, che dispensa a tutti, con la medesima intonazione della formula eucaristica de «Il Corpo di Cristo». Come per dire: una comunione farmacologica fa miracoli come l’ostia consacrata. Ecco, appunto: l’ostia consacrata presa come transfert. Se andiamo avanti di questo passo, non mi meraviglierei se trovassi un bellissimo cartellone pubblicitario con la riproduzione di un meraviglioso ostensorio in argento del sec. XVII e, nella teca centrale, al posto dell’ostia consacrata, campeggiasse il rustico leccese, immagine costruita con le medesime finalità pubblicitarie del pasticciotto.

Eppure, qualcuno approverà, sorridendo, questo modo di fare pubblicità, perché - si suole pensare e dire, forse con un po’ di presunzione - i cristiani si distinguono dagli altri fedeli delle altre religioni perché sono più tolleranti. Ma una cosa è essere tolleranti, un’altra cosa è essere disattenti e soprattutto incapaci di chiedere un po’ di rispetto di tutto ciò che ricade nell'ambito del sacro. Ecco, il punto è questo: nella nostra società è mutato o non c’è più il “senso del sacro”, oserei dire della bellezza del sacro, per cui appare normale che chiunque possa impossessarsi della vita dell’altro senza pensare che è un bene irripetibile e sacro; come appare normale che chiunque possa reclamare il corpo di un altro, prescindendo anche dalla sacralità del tempo in cui quell’esistenza realizza i propri affetti.

Penso, allora, a quanti Pater, Ave, Gloria uno dovrà recitare prima di potersi accostare e mangiare il santo pasticciotto; penso alla confraternita che sicuramente sarà affiliata al suo culto; penso ai tridui, alle novene, ai modi di lucrare magari indulgenze e in particolare alla festa patronale (la cui data, al momento, non conosco) e alla processione con tanti fuochi d’artificio.

Se vogliamo, comunque, andare alla ricerca, nel Salento, di transfert, gli esempi non mancano. Basti pensare alla lasagna ‘ncannulata, tradizionalmente piatto della festa, che nella forma rinvia alla colonna tortile degli altari barocchi salentini oppure agli ovuli della cosiddetta colonna ingabbiata presente nel Sedile di Lecce ed in tante chiese, non ultima Santa Croce (ma anche nei mobili di arredo), che proprio nella forma richiama il pasticciotto: poteva essere un riferimento all’arte salentina senza dover scomodare l’iconografia sacra. Inoltre, vorrei ricordare, per rimanere nel cibo, che nel Salento e non solo, è assai diffusa la presenza di santi legati alla dispensazione del pane benedetto, estensione della condivisione cristiana del “pane nostro quotidiano”, materiale e spirituale. E poiché il pasticciotto è un dolce, esempi legati ai dolci, anche assai comuni in altre aree geoculturali, non mancano nel Salento; sia sufficiente rammentare un dolce legato in particolare a Gallipoli: la cosiddetta “bocca di dama”, laddove il dolce altro non è se non la riproduzione efficace di ciò che Giovanni Andrea Coppola dipingeva nel Martirio di Sant’Agata per la cattedrale di Gallipoli. Tuttavia, in questo caso, l’elemento iconografico agiografico ha stimolato il prodotto alimentare, nel manifesto, invece, il prodotto alimentare ha sostituito l’elemento iconografico agiografico.

Rimane l’amaro in bocca (nonostante sia un dolce) delle intenzioni. Peccato che non sia venuto in mente di utilizzare il più famoso Baldacchino del Bernini in San Pietro in Vaticano che, come sfondo, ha un sole con tanti raggi, sostituendo quel sole con il pasticciotto, che nel manifesto compare con l’aureola e con un sole splendente nello sfondo. Il santo pasticciotto sarebbe stato esportato in Vaticano, magari con tanto di imprimatur. Comunque, potrebbe essere un’idea da non sottovalutare.

Tuttavia, ciò che rammarica di più è che tutto sia passato tra l’indifferenza o meglio tra la Divina Indifferenza, per scomodare Montale, e che nella confusione della comunicazione il messaggio arriva anche ai giovani, i quali alla fine si trovano nella stessa situazione di Bruno Munari, quando, sorvolando in aereo il polo nord, si rese conto che il giorno e la notte sono la stessa cosa, perché mancano i confini che ne stabiliscono il limite. Infatti, il voler far sembrare che tutto sia naturale e normale è un cattivo contributo alla comunicazione e alla conoscenza, perché potrebbe aprire la via alla confusione, anticamera della banalità dell’essere.

Perché alla fine, di questo si tratta: chi ha pensato, realizzato e diffuso quell’immagine-manifesto, più che reclamizzare il pasticciotto, ha fatto un gran pasticcio, confondendo etica ed estetica e, privilegiando l’utilità del profitto, ha escluso la possibilità, inscindibile, del buono e del bello.

 

*Docente di arte sacra presso l’Issrm di Lecce - Membro Commissione diocesana di arte sacra di Lecce

 

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