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La giustizia si fonda sulla comunicazione e sul dialogo, ma a comunicazione e il dialogo avvengono soltanto se c’è giustizia, cioè se chi è in comunicazione ha le stesse opportunità.

 

 

La comunicazione è giustizia, quindi? Nello stato di emergenza determinato dalla pandemia del Covid-19 la comunicazione è stata il filo che ha tenuto insieme i componenti di una società rinchiusa prima, parzialmente in circolazione poi. Il digitale è diventato un ambiente per tutti. Il web lo spazio quasi di esistenza. Nel cuore dell’emergenza essere giusti perché in comunicazione non è stato facile. Si è scoperta un’Italia meno connessa di quanto si pensasse. Nel momento in cui lo smart working è stato la condizione di lavoro di chi aveva il lavoro adatto, il digital divide si è messo a nudo sul piano dell’accesso tecnologico, di quello alfabetico e di quello culturale.

Si potrebbe immaginare come il protagonista del film di Ken Loach Io, Daniel Blake (2016) avrebbe affrontato l’emergenza del Covid-19. Daniel - che si potrebbe definire di “mezza età”, malato di cuore e disoccupato - non riesce a vivere perché non è in grado di fare una domanda di sussidio via Internet. “La sola possibilità è fare domanda online” - “Datemi un pezzo di terra e vi costruirò una casa ma non so neanche che cos’è internet”.

Queste battute di Daniel, nella loro attualità, aprono un mondo. Sarà un adolescente ad aiutarlo, mostrando come l’accesso passi anche dalla solidarietà di giovani vissuti troppo spesso separati   dalla società degli adulti. Si può immaginare che, se Daniel Blake avesse avuto un figlio, si sarebbe trovato nella situazione dei ragazzi che, durante l’emergenza del Covid-19, non aveva accesso. Perché Daniel è povero. Il necessario ricorso alla didattica a distanza ha ulteriormente messo a nudo le carenze strutturali dell’Italia digitale e il mancato accesso di molti ragazzi, reintroducendo, nell’istruzione, le varianti della condizione socioeconomica e del livello di istruzione dei familiari. In questa fase in cui essere connessi significava essere al mondo si è drammaticamente rivelata la correlazione tra il disagio economico e le competenze digitali.  Si verifica una sorta di Apartheid digitale, come definisce Vera Gheno questa condizione. Se il divario digitale rischia sempre di ledere i diritti fondamentali già nella cosiddetta “normalità”, nell’emergenza di fatto è avvenuto.

Nella trattazione della virtù della giustizia che essere giusti implica transitività e reciprocità sempre. Per giustizia digitale si intende anche orientarsi nel mondo Open, capirne l’importanza per lo sviluppo del genere umano nei grandi cambiamenti, ma anche nelle piccole azioni quotidiane. Capita, in generale, che tutti vivano nel mondo non Open: è più agevole e comodo per chi vi accede, consente di realizzare ampi profitti per chi ne ha la proprietà. Se si ragiona di giustizia digitale bisogna chiedersi se è giusto.

In effetti per la maggior parte delle persone stare in rete significa avere Windows come sistema operativo, cercare su Google, comprare su Amazon, lavorare o divertirsi in spazi commerciali. Significa quindi agire dentro grandi piattaforme proprietarie, fondate sulla profilazione degli utenti, ovvero sull’acquisizione di dati anagrafici e sul trattamento algoritmico dei comportamenti a fini di profitto. L’emergenza Covid-19 ne ha ampliato ancora di più l’utilizzo. Occorre una partecipazione civica con particolare attenzione all’impatto sociale di pratiche di educazione aperta, fondata sul rendere più accessibile il mondo della rete.

Se l’accesso al digitale avviene con la connessione e i device, dopo rimangono le grandi domande: come capire cosa è giusto nella rete? Quali contenuti si possono usare senza ledere diritti? Quali sono i doveri nella rete? Che cosa è aperto e accessibile? E, non ultimo, tutti davvero possono esserne parte?

 

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