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Nato in Canada, 59 anni, genitori salentini, di Racale precisamente. Tante testate giornalistiche la definiscono il ‘prof. italo-canadese’. Lui è Daniele Manni, docente di informatica presso l'Istituto Galilei Costa di Lecce e candidato a vincere il premio Innovation and Entrepreneurship Teaching Excellence Awards, il Nobel dei docenti, unico insegnate di scuola superiore in nomination per la seconda volta e unico italiano rimasto in gara. La cerimonia di premiazione titolo dedicato all’eccellenza didattica proprio in tema di innovazione e imprenditorialità si svolgerà ad Avenio in Portogallo i prossimi 20 e 21 settembre. 

Professore Manni, quanto porta nel suo bagaglio formativo della cultura canadese e di quella italiana?

Sì, ecco, questa è una domanda che non mi avevano mai fatto e devo dire la verità mi fa piacere perché credo che in me ci sia tanto della cultura canadese. È vero sono venuto in Italia quando avevo 11 anni, quindi ho trascorso solo i miei primi 11 anni in Canada, però sono stati anni molto formativi; probabilmente, se dovessi dirlo in poche parole, io credo che l’apporto maggiore è stato la concretezza. La scuola elementare in Canada è molto concreta, le scienze si studiano nella scienza, si esce all’aperto, si raccolgono foglie,  è una scuola improntata in maniera diversa rispetto a quella italiana, dove sin da piccoli si è portati ad una sorta di cammino verso la soluzione di problemi e questa è una caratteristica molto importante.

 

Ci racconti un po’ della sua infanzia, della sua adolescenza e, in particolare, della scelta della laurea in informatica a Torino.

Anche qui posso raccontare un piccolo aneddoto. Ero in Canada e parlavo con un signore che abitava sopra casa nostra che mi fece la classica domanda: ‘che farai da grande’ Io, ovviamente, ero piccolino e risposi di non saperlo ancora. Allora lui mi disse: ‘Fai allora l’ingegnere perché con una firma guadagni un milione’. E  sono cresciuto con questa bellissima frase, che sarebbe bastata una firma per guadagnare tanto. Arrivato in Italia, al momento della scelta della scuola superiore ho deciso di frequentare il liceo scientifico, che più avviava verso ingegneria, ma durante lo studio degli esami di maturità ho avuto una piccola crisi, pensando che tale facoltà potesse essere troppo pesante. Sono andato a Torino per indagare, per chiedere consiglio a degli amici e stavo per decidere di iscrivermi ad architettura. Poi parlando a mensa, un ragazzo mi propose di iscrivermi ad informatica, una facoltà, per me, totalmente sconosciuta: una nuovissima laurea, istituita allora a Torino da appena due anni, mi informai e questo corso di studi mi affascinò e sono stato felicissimo della scelta fatta.

Il rapporto con la sua famiglia, i suoi genitori, che cosa le hanno lasciato…

Sicuramente devo tantissimo ai miei genitori. Intanto in loro ho vissuto la classica situazione dei sacrifici dell’emigrante. I miei erano emigranti, che anziché scegliere la Germania, il Belgio, la Svizzera come molti nei nostri paesi, hanno scelto il Canada. E ovviamente sono felicissimo per questa loro scelta. Hanno vissuto una vita fatta di sacrifici e di rispetto reciproco, del rispetto per gli altri. Loro mi hanno insegnato di salutare sempre, di essere rispettoso, di trattare gli altri come se fossimo noi stessi. Sono cresciuto proprio con questi criteri e, probabilmente, questi incidono anche nella mia didattica e nel mio rapporto con i ragazzi, perché loro si sentono assolutamente rispettati. Non pretendo silenzio, non pretendo ordine, ma pretendo rispetto, però in cambio lo do a tutti.

I suoi genitori nel vedere il ‘piccolo’ Daniele candidato oggi a diverse e importanti nomination

Purtroppo i miei genitori non ci sono più. Ho perso mio padre quando avevo 18 anni, mia madre appena qualche mese fa. Mia madre non ha vissuto quest’ultima esperienza, ma ha vissuto sicuramente quella del 2015, quando risultai finalista al Global teacher prize, una sorta di premio Nobel per l’insegnamento. Ovvio era molto orgogliosa, anzi devo dire una cosa: mi ha colpito perché era più orgogliosa del mio incontro con il Papa, grazie a questa nomination, anziché dell’essere arrivato in finale in un premio così prestigioso, perché, ovviamente, per la cultura popolare aveva un’incidenza più importante.

 

Ha dei fratelli?

Ho due fratelli che amo moltissimo, stimo moltissimo e tra noi c’è un bellissimo rapporto.

Unico docente italiano, tra i 12 finalisti agliInnovation and Entrepreneurship Teaching Excellence Awards’. Unico docente di scuola superiore. Si aspettava questa nomination?

Mi impressiona un po’. Di solito io sono molto sfrontato, però nel momento in cui ho letto quali erano i 12 finalisti, per studiare, per così dire i concorrenti, scoprire che tutti e 11 sono docenti universitari di importanti università del mondo, statunitensi, sudamericane, cinesi,  questo mi ha intimorito. È ovvio che la candidatura mi ha reso orgoglioso: ad essere sincero appena letta la notizia, ho chiamato l’organizzazione del premio, perché non volevo che ci fosse stato un refuso, perché ‘institute’ in inglese può significare tante cose, specificando di appartenere ad una scuola superiore ma mi tranquillizzarono perché lo sapevano perfettamente. L’unico italiano? Mi dispiace, mi piacerebbe che vi fossero più italiani. Ne approfitto per dire una cosa: nel Global teacher prize, che fa più rumore perché il vincitore percepisce un milione di dollari, in quattro edizioni siamo stati 5 italiani e risultare tra i finalisti. Due di questi cinque, io e il professore Persico, siamo docenti nella scuola superiore. Secondo me questo è una sorta di segnale, nel senso che se fossimo in tanti a farlo, se in tutte le scuole potessimo fare questo percorso didattico particolare, probabilmente la scuola per certi versi potrebbe cambiare.

 

Si aspettava questa nomination?

No, non me l’aspettavo, così come non mi aspettavo quella di tre anni fa. Qui c’è una reazione a catena, un fatto chiama l’altro: l’organizzazione di questo premio ha saputo che sono stato finalista tre anni fa e che mi occupo di imprenditorialità. Siccome questo premio è proprio improntato sulla didattica dell’imprenditorialità, sono stati incuriositi e mi hanno chiesto di raccontare le mie esperienze degli ultimi tre anni dopo la nomination e in seguito ho ricevuta una mail, in cui mi è stato comunicato di essere tra i finalisti.

Laurea in informatica e nel 1985 la sua prima impresa come consulente informatico. Poi nel 1986 “una supplenza di 6 ore, per fare un favore ad un amico. È stato amore a prima vista, il contatto con gli studenti mi ha catturato e non mi ha lasciato negli ultimi 32 anni”. Cosa è successo? Cosa l’ha spinto a passare dalla libera imprenditorialità al lavoro nel mondo della scuola.

Nel 1986 ero un neolaureato in informatica da due anni , eravamo pochissimi in Italia ed eravamo proiettati verso il lavoro del futuro, avevo idee molto ambiziose. L’insegnamento era assolutamente fuori da tutti i miei pensieri. Ma proprio perché eravamo pochi informatici i provveditorati facevano a gara per chiederci di coprire le cattedre, perché a scuola era nato l’indirizzo che prevedeva l’insegnamento di informatica, quindi mancavano i docenti. Ho sempre rifiutato finché un amico mi ha chiesto un favore enorme per sostituire una docente in maternità che aveva 6 ore di permesso alla settimana per l’allattamento. Lì ho accettato proprio perché si trattava di pochissime ore ed effettivamente entrando in contatto con quei ragazzi è scattata una molla particolarissima e non sono più riuscito a staccarmene. Dal 1986 al 1999 ho condotto entrambe le professioni, finché nel 1999 una svolta radicale nella mia vita mi ha portato anche dal punto di vista professionale a fare una scelta e ho scelto di abbandonare l’aspetto imprenditoriale esterno e di concentrarmi nella scuola e portare ai ragazzi la mia esperienza e le mie competenze maturate negli anni.

Dal 1990 insegna informatica presso il Galilei-Costa, storico e prestigioso istituto tecnico-economico. Questa cattedra le ha dato la possibilità di essere trai i finalisti, ma lei non è mai seduto – dicono i suoi alunni- in cattedra…

I primi anni in cui facevo il professore, non avendo avuto modelli diversi, imitavo i miei professori. Poi ma mano c’è stata una specie di evoluzione in cui mi sono reso conto che non stava scritto in nessuna parte che bisognava fare in quel modo, anche perché insegnando una materia piuttosto ostica succedeva che 4/5 alunni erano portati per l’informatica e tutti gli altri, in cui mancava quel pizzico di dna per questa materia, li perdevo. Questa cosa la vivevo come una sorta di sconfitta personale e ho deciso di cambiare radicalmente il mio modo di insegnare, sperimentando tante cose, sbagliandone alcune, correggendole e migliorandole poi nel tempo e in questo percorso sono sceso dalla cattedra, avendo più presa ed entrando in empatia con i ragazzi se le lezioni avvenivano in maniera meno cattedratica, parlando con i ragazzi, stimolarli, avvicinarli, conoscere le loro passioni: questo è un passaggio importante, perché ogni ragazzo è diverso, se noi riusciamo a cogliere quell’interruttore, quella lampadina che li accende e riusciamo con la nostra didattica a farlo, allora abbiamo avuto successo, perché i ragazzi si sentono pensati e considerati e diventano curiosi di sapere.

Tanti i giudizi sui ragazzi di oggi, demotivati, annoiati, svogliati…Lei cosa pensa?

Allora sul fatto che i giovani vengano considerati con questi aggettivi, purtroppo devo dire che presi in massa è vero. Però c’è da dire una cosa: secondo me, stiamo sbagliando noi adulti e, soprattutto, noi insegnanti in una cosa molto precisa. I giovani di oggi hanno qualcosa di diverso rispetto al passato, che è il telefonino. Il telefonino non è soltanto uno strumento, ma è proprio un mondo multimediale, ricco di stimoli. Loro, attraverso lo smartphone, ricevono e partecipano a linguaggi completamente diversi rispetto al linguaggio formale del parlato. Ricevendo e vivendo in un mondo così ricco di stimoli, nella scuola, invece, dove c’è ancora una specie di dialogo unidirezionale si sentono tagliati fuori, è come se fuori dalla scuola vivessero in un mondo a colori e a scuola in un ambiente opaco se non addirittura in bianco e nero. Dico spesso che i contenuti della scuola italiana sono eccellenti, ma va cambiato il modo con cui comunicare questi contenuti. Se i ragazzi sono nati in un contesto digitale, pieno di stimoli, anche la scuola, da questo punto di vista, deve avere una sorta di maturità nel comprendere come sono fatti i ragazzi. Non si tratta di scendere al loro livello, ma si tratta di trovare quei linguaggi per comunicare con loro, ottenendo molto di più.

 

Quindi la scuola italiana è innovativa, rispetto agli altri paesi europei?

No, non è innovativa, soprattutto se confrontata con la didattica delle scuole scandinave, che sono esempio di vere scuole innovative. La mia impressione è che la scuola italiana sia simile a tante altre scuole, che possa essere quella  francese o quella spagnola, ed ha una base per così dire ‘classica’ ereditata e conservata negli ultimi trenta quarant’anni, mentre è contornata da tanti docenti sparsi, staccati l’uno dall’altro, con voglia di innovazione. Tra questi docenti con voglia di innovare ci sono due gruppi: un gruppo che ha il coraggio di farlo a prescindere e un gruppo che si sente ostacolato a farlo e a questi mi verrebbe da dire di fare un atto di coraggio nel superare il blocco che c’è intorno. Insisto sempre nel dire che con i propri alunni e con la propria classe nessuno ci può dire cosa fare, bisogna avere questa libertà professionale di gestione, di inventarci delle lezioni innovative, di sperimentare, perché soltanto sperimentando ci accorgiamo delle tecniche migliori per entrare in contatto con ragazzi e per ottenere di più da loro.

E a proposito dell’alternanza scuola-lavoro?

Sono così legato all’imprenditorialità che non potrei non essere a favore, però credo che ogni scuola debba avere una sorta di autonomia nella scelta di quante ore destinare all’alternanza, in base alla propria didattica: in alcune scuole potrebbero essere sufficienti 100 ore per dare ai ragazzi la possibilità di respirare la realtà esterna, in altre, come la mia o altri tecnici e professionali, addirittura si potrebbe fare come in Germania e destinare il 50% delle ore nell’impresa.

Vivere e lavorare al Sud. Ed insegnare al Sud?

È una domanda che mi crea un po’ di difficoltà, non avendo mai lavorato e insegnato al Nord. Per cui mi adeguo al sentimento popolare che vuole che sia un po’ più difficile vivere al Sud, soprattutto nel mio caso in cui parlo di innovazione. Ho ricevuto, a volte, delle osservazioni sul mio insegnare imprenditorialità, più adatto nel Nord Est dell’Italia come atteggiamento. La geografia può aiutare, ma se il docente ha un certo fuoco dentro può stare in ogni parte d’Italia. Sicuramente al Nord il discorso imprenditoriale viene più riconosciuto e apprezzato, per cui immagino che quella rete di collegamenti che ho creato in 25 anni di lavoro al Sud, l’avrei creata in 15 al Nord, ma questo non è un problema. Invece se posso aggiungere una nota sulla vita al Sud, a me piace moltissimo, del Sud apprezzo ancora quei valori popolari con cui sono cresciuto appena arrivato in Italia, vivendo a contatto con i nonni e con gli zii.

Per cui le manca il suo paese d’origine?

Mi mancano i due miei paesi d’origine: mi manca il Canada sicuramente e quando posso ritornare mi sento a casa, mi manca anche Racale, mi manca dal punto di vista affettivo. Oggi forse mi troverei un po’ stretto a vivere in un paese così piccolo, mentre sono abituato a Lecce, che non è una grande città, ma è una cittadina in cui in qualsiasi ora, anche della notte, c’è attività e vita.

È spesso definito il ‘Marchionne della scuola’. Come mai questa associazione?

Quest’associazione per alcuni versi la comprendo, per altri la rifiuto. Comprendo l’aspetto sommario: sono italo-canadese come Marchionne, come lui non sopporto la giacca e cravatta e porto il maglione, era legato al mondo dell’imprenditorialità. Forse nei rispettivi ambiti siamo stati dei visionari, però questi sono gli aspetti in comune, che ripeto sono cose di superficie. La cosa che non mi piace che possa passare di questo messaggio è che io voglia far diventare la scuola un’impresa.

Cos’è la scuola?

La scuola è assolutamente formazione, solo che vorrei che fosse più formazione di vita, che la scuola contribuisse a ‘creare’ uomini. La mia idea è quella di una scuola che riempia di stimoli i ragazzi, che possa colpire i loro interessi e motivarli. La scuola come una vera e propria palestra, in modo che ogni ragazzo non faccia un percorso identico a tutti gli altri, ma un percorso quasi personalizzato, che fa venire fuori la sua vere passioni.

I termini da lei usati, ideare-creare-piazzare, indicano un percorso educativo?

Questo è bello, perché in pratica i primi anni quando decisi di interrompere la mia attività imprenditoriale per insegnare ai ragazzi imprenditorialità, il motore che mi spingeva era quello di creare quanti più imprenditori possibili. Poi dopo mi sono accorto che la tecnica didattica di spingere alla creazione dava dei risultati anche in quei ragazzi non portati per l’imprenditorialità. A posteriori, scoprivo che acquisivano più fiducia in se stessi, diventando un po’ più resilienti, più capaci ad adattarsi ai cambiamenti della vita: in sostanza in loro si accende il termine speranza. Nella nostra scuola non si vive la sensazione di giovani sperduti, ma nei corridoi si percepisce la sensazione di ragazzi che condividono i successi dei loro compagni: nasce in loro l’idea che per tutti è possibile con l’impegno raggiungere dei risultati.

E il fattore ‘s’?

Questa è un aspetto ancora un po’ riservato, nel senso che ne parlerò in Portogallo, dove mi è stato chiesto di progettare un poster emblematico del mio lavoro. In questo poster ho diviso i ragazzi tra quelli che hanno il fattore ‘s’ e quelli che non lo hanno, dove la ‘s’ sta per start-up, un fattore presente nel loro dna, che permette loro di diventare imprenditori di se stessi, stimolati dalla sfida dell’impresa, senza scoraggiarsi dinanzi ad un fallimento, ma correggendo gli errori. I ragazzi col fattore ‘s’ variano da un 5 ad un 15 per cento per ogni classe.

Come mai negli ultimi anni è passato da start-up economiche a start-up sociali?

È stato un caso. Sino a tre anni fa eravamo improntati a fare start-up economiche, creare un servizio o un prodotto e venderlo, con lo scopo del profitto, la classica impresa, che dà lavoro a se stessi e agli altri. Poi nel gennaio del 2016 il racconto, in una mia classe di primo anno, del tentativo di suicidio di una ragazzina di 12 anni di Pordenone e il biglietto emblematico scritto ai compagni “Adesso sarete contenti!”, perché probabilmente invitata in tanti modi a togliersi la vita. Questa notizia mi ha scosso molto e ho portato, come spesso faccio, questo fatto sociale in classe. Il discorso li ha così coinvolti e accesi tanto che uno di loro ha proposto un progetto su quest’argomento. Di primo impatto mi è venuto da dire che non era un prodotto da vendere; mi ha colpito la loro maturità nel momento in cui mi hanno risposto: “Non fa niente, professore, ci piace troppo!”. Il progetto di combattere  questa piaga sociale del bullismo e del cyberbullismo è diventato, man mano, una cosa così importante sino a divenire un’impresa. A breve verrà presentato il progetto ‘Mabasta’, che le scuole possono adottare in tutta l’Italia.

Un messaggio ai tanti aspiranti docenti scoraggiati…

Non conosco i meccanismi per diventare docenti oggi, mi auguro che ci sia ancora la possibilità di fare concorsi e che siano superati per merito, dando la possibilità di poter insegnare anche a 25/26 anni. Per coloro che sentono questa passione consiglio, una volta entrati in aula, di stravolgere le regole in base alle proprie percezioni, entrando in contatto e in empatia con i ragazzi, con qualsiasi strumento. Si perdono moltissime ore , ma il risultato ottenuto quando si crea il legame empatico è tale da recuperare il tempo perso.

Un messaggio per i ragazzi disorientati…

Se credono in qualcosa devono perseguirlo. Lo diciamo in tanti, sembra quasi una sorta di proverbio. Noi scuola come istituzione dobbiamo fornire ai ragazzi gli strumenti per la realizzazione di un cammino che porti all’ espressione dei loro doni: “Ragazzi, qualsiasi sia la vostra passione, seguitela!”. Mi ritrovo distante da alcuni adulti che considerano certe passioni non percorribili: “Se c’è passione per il teatro, per la musica, per l’espressionismo, per danzare, assolutamente seguitela!”.

La frase dei suoi alunni che la commuove ed emoziona di più?

In questo momento particolare, quella che mi ha fatto sorridere e commuovere è la frase dei i ragazzi, quando leggono sui giornali la notizia che il loro prof. è finalista e la condividono, commentando: “è il mio prof.!”. Allora, quello sì, mi commuove molto.

Pensando all’istituto Galilei-Costa, dove lei ha fatto un lungo percorso…

Chi mi conosce sa che il Galilei-Costa - non posso dire che è la mia seconda casa perché sembra che venga dopo la prima - no, è la mia seconda prima casa. Sono trent’anni che sono là dentro e sono innamoratissimo di questa scuola. Provo una passione radicata veramente in maniera forte.  Ha delle ricchezze in sé che sono straordinarie, solo che sono chiuse e non vengono aperte a tutti quanti. In quella scuola abbiamo un museo di scienze naturali creato da Cosimo De Giorgi, un insegnante, il lavoro è stato proseguito da Liborio Salomi, altro grande scienziato salentino, altro nostro insegnante; abbiamo un biblioteca antichissima. In quella scuola ci sono degli scrigni meravigliosi e quelle mura parlano, parlano moltissimo. Chi ha visto il film ‘L’attimo fuggente’  ha presente la  scena in cui Robin Williams porta i ragazzi nel corridoio, li fa stare in silenzio a guardare un antico quadro: e quel quadro ‘ parla’. Quella scuola è così, quelle mura, quei quadri, quei dipinti, quelle fotografie antiche parlano e raccontano: una scuola moderna può avere tanti vantaggi a suo favore, ma non avrà mai lo spessore della storia.

 

Quali valori lei trasmette nell’insegnamento, oltre la formazione.

Questa è una cosa molto importante e mi piace molto. I valori riesco a sintetizzarli in due comandamenti, se mi passa il termine. Il primo comandamento è ‘non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te’. In questo detto è racchiuso tutto: non c’è bisogno di dire non uccidere, non rubare, non offendere, perché è tutto raccolto in questa frase. Il secondo comandamento simile, ma opposto, dice ‘fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te’: significa che si deve essere propositivi, non soltanto non fare del male, ma fare del bene, invece. Questi sono la sintesi e il riassunto dei valori con cui sono cresciuto e che trasmetto ai ragazzi.

Un messaggio ai lettori di portalecce.

Due messaggi. Uno assolutamente ottimistico, perché sono un ottimista per natura e nessuno mi sradica da questo atteggiamento: la vita è una cosa straordinaria e per vita non intendo la vita dei finalisti al premio Nobel, intendo la vita nella sua essenza più bassa ed ampia possibile: la cellula è vita, una foglia è vita, basterebbe questo per vivere col sorriso sulle labbra, perché se uno si rende conto di questa preziosità che ha intorno non può non sorridere. L’altro messaggio è pessimistico, che non riesco a sradicare e non mi rivolgo soltanto ai giovani, ma anche ai miei coetanei sessantenni: ci stiamo chiudendo troppo nella scatola del cellulare, dello smartphone. Lì ho una visione pessimistica del futuro, vorrei che si tornasse alla vita vera e reale, umana, di contatto e un po’ meno a questa virtuale. Ho paura, ed è una paura radicata, che soprattutto i giovani, crescendo con questo strumento e con ciò che nasconde all’interno, rischino di vedere come vero ciò che viene scritto su di uno smartphone e non vero il rapporto umano col compagno di banco: piango quando alle feste di compleanno vedo i ragazzi tutti col cellulare in mano, distaccati tra loro.

Chiudiamo con la frase con cui apre la sua prima lezione a scuola.

“Cosa ci inventiamo di nuovo?” ed è una domanda a cui non posso dare risposta, perché bisogna aspettare la fine dell’anno scolastico.

E i ragazzi cosa rispondono?

Si guardano un pochettino spauriti tra loro poi comprendono cosa intendo dire. Però devo aggiungere che negli ultimi anni sono proprio loro a chiedere: “Professore che facciamo?”

 

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