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Magistrato una volta, magistrato per sempre. Anche se a riposo dal 1° gennaio 2017 Cataldo Motta, già procuratore della Repubblica presso il Tribunale e a capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, non ha mai considerato la parola “pensione” un ostacolo alla sua vocazione naturale, il contrasto all’illegalità. 

Tant’è che, pur dal suo studio privato, continua la sua lotta contro la criminalità organizzata: in altre forme.

Autodefinizione: chi era Cataldo Motta ieri, chi è Cataldo Motta oggi. 

“Sicuramente la stessa persona, arricchita da esperienze lavorative particolarmente qualificanti e che hanno cambiato la sua vita, non solo professionale. Ma ho il vantaggio che mio figlio viva a mille chilometri di distanza, a Padova, e che non sia più tornato. Fa il professore universitario”.

Come trascorrono le sue giornate da quando è a riposo?
“Mi sono accorto che lavoro più di prima, nel senso che ho dato impulso al libro che avevo intenzione di scrivere sulla Scu. Voglio che resti traccia di questo fatto: siccome siamo stati lenti nel comprendere, cerco di recuperare il tempo perduto spiegando cosa è stato questo fenomeno da 35 anni a questa parte, cioè da quando ho iniziato a occuparmi delle vicende criminali in questione. E devo dire con grande rammarico di essermi reso conto di quanto si sia modificato, in alcune zone della Puglia, il rapporto tra la gente e l’associazione di tipo mafioso: in alcune aree della regione, infatti, abbiamo superato il punto di non ritorno della legalità,  perché queste associazioni criminali godono del consenso della gente”.

Ci fa un esempio?
“In alcune città del brindisino, per esempio, non è più necessario chiedere il pizzo perché sono i commercianti ad offrirlo spontaneamente; stesso concetto a Lecce, quando sono stati sparati fuochi d’artificio in concomitanza con le scarcerazioni di alcuni criminali. Il libro che sto scrivendo, quindi, tenta di tornare al punto di partenza, di percorrere 35 anni per arrivare a questo punto di non ritorno. Per capire come sia potuto succedere”.

Sarà davvero impossibile tornare indietro?
“Dove questo è accaduto, cioè a Lecce e a Brindisi - a Taranto la situazione è diversa - sarà difficile tornare alla legalità, perché è appunto mutato il rapporto con la gente, che prima era accanto a noi nell’azione di contrasto al crimine. Non dico che oggi la gente condivida l’essenza di certi fenomeni, ma probabilmente li accetta”.


È grave.
“Molto grave. Ed è ancor più grave che tra la scelta stragista di Totò Riina e quella di inabissamento delle attività criminali di Bernardo Provenzano sia prevalsa la seconda, particolarmente pagante perché consente alle mafie di proseguire con le attività illecite senza esposizione diretta, per cui la gente è convinta che le associazioni criminali non ci siano più, ed invece ci sono e prosperano. Un po’ come ai tempi della pax mafiosa siciliana, quando i gruppi si mettevano d’accordo: la conflittualità sopita funziona. Se insomma questa calma fosse stata il risultato di operazioni di contrasto giudiziario sarebbe stato un successo, e questo in passato è accaduto. Ma oggi le organizzazioni criminali, considerato tutto ciò che ho detto prima, sono ancora più forti. Agiscono nel silenzio”.

Dica la verità: lei, quando sente parlare di operazioni condotte oggi dai suoi colleghi, freme.
E certo che sì. Però, come ho già detto, oggi lavoro addirittura di più. Sto scrivendo il mio libro, come le dicevo, anche se ho dovuto sospendere per un certo periodo perché faccio parte del  Comitato scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, fondazione facente capo a Coldiretti, e Giancarlo Caselli mi ha chiesto di scrivere un’altra cosa. E poi sono stato nominato consulente del Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, il prefetto Domenico Cuttaia”.

Quali sono stati i suoi maestri umani e professionali?
“Ho sempre cercato di imparare da tutte le persone che l’età, lo studio e l’esperienza hanno portato sulla mia strada. Il contrasto alla criminalità organizzata lo fanno anche e soprattutto i contatti e le relazioni di cui puoi disporre, ed io ho avuto sempre colleghi ottimi, sia nel lavoro specifico della Procura di Lecce che in altre sedi. Lo scambio di opinioni è sempre decisivo, come pure essere umili e pronti a cambiare idea, senza affezionarsi troppo alle teorie. Ma conta anche essere determinati quando si è convinti di un’idea: se così non fosse non ci sarebbe alcun risultato. E comunque, tornando alla domanda di prima, sì: fremo. Ma sono anche contento di chi ha raccolto il testimone e sta lavorando bene”.

Torniamo al personale: ultimo libro letto.
Nessuno. Siccome sto scrivendo il mio libro, sto rileggendo atti e requisitorie. E devo ammettere che non ricordo neppure il titolo dell’ultimo libro letto. Il mio è un lavoro totalizzante, che comunque mi piace molto”.

Non legge libri neanche a letto?
“Mai letto libri a letto”.

Come ha trascorso le vacanze?
“Non ho fatto nulla. Sono andato al mare tre o quattro volte, a Porto Cesareo. Amo molto il mare, ma pure la montagna, che però mi rilassa di più. il mare è faticoso”.

Qual è stato il momento più bello della sua vita?
“Risposta difficile: il giorno in cui è nato mio figlio e tanti momenti importanti della sua vita, ma anche quello delle decisioni giudiziarie che hanno riconosciuto la qualità del lavoro svolto. Posso contare insomma su un ampio ventaglio di giornate felici”.

Il suo rapporto con la fede?
“Sono scettico, ma questo non mi impedisce di credere in quello che mi ha insegnato mio padre, ovvero in quel senso del dovere che mi ha portato a fare nella vita quello che ho fatto - quello che andava fatto - senza pensarci su”.

Il suo scetticismo non ha mai vacillato?
“No, anche se mi sono sempre fatto una serie di domande che credo siano abbastanza diffuse. Senza però avere mai risposte soddisfacenti”.

Un’immagine che le ritorna spesso della sua infanzia?
“Ho avuto un’infanzia tranquilla. Eravamo nel primo dopoguerra, e a pensarci bene l’educazione era dura,  però era da accettare,  perché quello era l’insegnamento: se lasciavi qualcosa nel piatto, te la ritrovavi il giorno dopo. Oggi accade l’opposto, e le conseguenze si vedono. Quando vado a fare la spesa soffro nel vedere cento tipo di pasta o mille profumazioni per lo stesso detersivo. Il  consumismo più sfrenato mi dà fastidio… comunque ricordo che a casa mia si cenava alle otto e mezzo, quando i miei compagni andavano al cinema, quindi per me era un discorso tabù. Però sono sciocchezze, la schiena dritta me l’ha dato e mantenuta anche mio padre”

Che idea si è fatto di Papa Francesco?
“Quella di una persona molto comunicativa, sicuramente benvoluta, molto saggia e alla mano: ciò che ci vuole per la Chiesa in questo momento. Anche se la Chiesa è forte e può superare qualsiasi difficoltà, qualsiasi momento difficile”.

Che cos’è per lei la parola “amore”?
“Non so rispondere, o forse sì: un rapporto di affetto che supera qualsiasi altro aspetto contrario. Mi sono posto questo problema ristudiando un caso nel quale, durante un regolamento di conti, un uomo braccato dentro casa sua si era fatto scudo con la moglie, e mi sono chiesto se questo comportamento sottendesse un atto di disamore o se in realtà fossimo davanti a una condotta diversa, un gesto inconsulto dovuto a quell’attaccamento alla vita che ha ragione di ogni istinto contrario… forse quell’uomo ha pensato che mettendo sua moglie tra sé e le armi avrebbe fermato il fuoco dei sicari? Ci ho riflettuto a lungo, ne parlo nel libro, che spero esca presto”.

Quanto manca all’uscita?
“Ho scritto un centinaio di pagine, ma ce ne vorrebbero quattrocento. E’ un saggio, ma con fatti e aneddoti che lo alleggeriscono”.  

Fotografia di Lecce oggi: cosa ne pensa?
“Città molto disponibile, dove ho sempre notato una sorta di riconoscenza diffusa per quel che abbiamo fatto: il che ovviamente fa piacere, perché il mio è stato un lavoro pesante, anche se l’ho sempre fatto con grande passione, senza domeniche e giorni festivi. Penso però anche a quando all’inizio del mio lavoro, con la polizia giudiziaria, segnalavamo modifiche nell’atteggiamento della criminalità locale, non più agricola ma in fase di organizzazione di una risposta al tentativo di invasione da parte della camorra, e in diverse sedi ci trovammo davanti muri di gomma: “Se cominciamo a parlare di questo la vocazione turistica della città sarà danneggiata”, ci sentivamo rispondere: come se il danno fosse parlarne, non quello che stava succedendo”.

Il momento più drammatico della sua carriera?
“Forse non ce ne stono stati, tranne l’inevitabile malessere nell’apprendere di iniziative dirette alla mia soppressione fisica. Ma ho accettato anche questo”.

È fatalista?
“Direi di sì. E quindi il mio non era coraggio, era fatalismo”.

Si è mai ritenuto un uomo felice?
“Sì, lo sono sempre stato”.

Quanto ha contato la famiglia nella sua vita?
“Molto.  E non ha mai ostacolato il mio lavoro: anzi”.

Rapporto con la morte? Paura per via della sua professione?
“Sono diventato scettico, perché quando vedi come si riduce un essere umano dopo la morte, e condividi le autopsie con il medico legale, ti rendi conto di come non ci possa essere nulla, dopo. E ne ho paura proprio perché ne ho viste troppe, di cose brutte. Nei momenti difficili della professione, però, ho avuto sempre il conforto della presenza di coloro che lavoravano per la mia sicurezza”.

Come vorrebbe essere ricordato fra cent’anni?
“Come uno che ha fatto il proprio dovere e che è riuscito a dare fastidio, ad arginare, con il contributo di molte altre persone, un’organizzazione criminale. Non si può purtroppo parlare di sconfitta, la Scu non è stata debellata: si fa i fatti suoi in maniera sommersa. Non ha più bisogno di fatti eclatanti”.

Cosa vorrebbe lasciare ai giovani come eredità umana e professionale?
“Ho un rapporto bellissimo con i giovani, per merito loro: sono quasi tutti mossi da una forte spinta ideale, anche se in difficoltà circa il loro futuro. Però io dico sempre loro che quest’ansia fa parte della vita, e che deve sempre prevalere la speranza. Valori che ho insegnato anche a mio figlio, che è peggio di me: uno tutto d’un pezzo, e coraggioso, visto che ha abbandonato la via tracciata dalla famiglia: i Motta sono magistrati da tre generazioni. Mio padre lo era, come mio nonno e mio zio. Tornando ai giovani, li sento vicinissimi quando parlo nelle scuole, in un silenzio assoluto che in genere è difficilmente ottenibile. Sono molto attenti, perché avvertono forte il bisogno di legalità e pulizia”.

Le piace l’Italia di oggi? E se no, cosa fare per cambiarla?
“Cosa fare non lo so: sono un magistrato, non il  Padreterno, come dico ai ragazzi. L’Italia di oggi non può certo piacere, perché vi accadono cose da terzo mondo: un ponte, in una città civile, non può crollare”.