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Una lettera che parla della vita e alla vita dei sacerdoti. Attualmente bersagliati, in alcune aree neanche considerati, molto spesso derisi, i preti non smettono di vivere la loro vita a servizio della Chiesa e del popolo di Dio. Per questo ci sono ancora luoghi dove ci si rivolge loro con affetto e amore.

 

Non so cosa abbia spinto il Papa a scrivere la lettera in occasione del 160° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, ma ha fatto proprio bene. Colpisce che il Santo Padre non parli del sacerdozio, ma del sacerdote, dell’uomo fatto di carne e ossa.

Così come Gesù non parlava dell’adulterio, ma all’adultera, non parlava della carità, ma del buon samaritano. Gesù raccontava, entrava in relazione con le persone, parlava loro e toccava le loro ferite. Forse perché le astrazioni non appartenevano al mondo della Bibbia e neanche alla cultura ebraica dove la narrazione era più importante. Come nell’Amoris Laetitia il Papa non parla a una famiglia astratta, ma alle famiglie di oggi, quelle del XXI secolo, così in questa lettera parla al sacerdote di oggi, quello di ogni giorno che vive in una determinata terra e situazione.

Come vescovo albanese, mi sarebbe piaciuto - non lo nascondo - che la lettera iniziasse magari da un altro tipo di dolore, quello del martirio, vissuto in Albania qualche decennio fa: sacerdoti e vescovi furono fucilati, imprigionati e obbligati ai lavori forzati dal regime. O dal dolore inflitto alle comunità cristiane dell’Africa e dell’America latina per l’uccisione di sacerdoti e suore, impegnati nell’annuncio della liberazione dalle catene della violenza e dello sfruttamento. O, ancora, dai preti e dai vescovi della Cina che hanno dato una grande testimonianza di fede e fedeltà.

Invece, la scelta è ricaduta sul dolore degli abusi sessuali. E non poteva essere altrimenti. Prima di ogni altra cosa, oggi si parla di quell’esperienza che provoca vergogna e fa abbassare la testa. Ebbene, è così! Non possiamo e non dobbiamo nasconderci per non ripetere gli errori del passato.

Il Papa, però, non si rassegna al dolore, ma spicca il volo. Parte dalla situazione, a volte faticosa, di molti sacerdoti, ma anche vescovi. Dai momenti di lavoro, di delusioni e di frustrazione, ricordandoci l’altezza della vocazione. È vero: oggi molti sacerdoti vivono situazioni di frustrazione e stanchezza un po’ per la loro vita, un po’ per una situazione generale della società e della Chiesa. Molti fanno fatica nel celibato, altri nell’assumere gli impegni ministeriali, altri vivono in situazioni ambigue di collusione con il potere e i soldi. Tutte situazioni che creano solitudine, dalla quale è difficile uscire se non c’è chi ti aiuta a venirne fuori. Ecco perché il Papa parla dell’accompagnamento spirituale come di un amico al quale aprire il cuore. Mi viene in mente uno dei miei padri spirituali che mi aiuta tuttora a vedere dentro di me, nella mia vita. Anche se, per diverse circostanze, non esercita più il ministero, mi dona sempre uno sguardo nuovo sulle cose e soprattutto sulle difficoltà.

Forse molti di noi oggi devono riflettere sull’accidia e su come affrontarla. È uno dei pensieri, come li chiamano i padri del deserto, in modo particolare Evagrio, più duri, che uccide l’anima, la affievolisce, la intristisce. Ma non è impossibile combatterlo. Il combattimento interiore, del quale parliamo poco - non lo s’insegna più neanche nei seminari e nelle case religiose- è una lotta per la vita che oggi diventa difficile più che mai, ma non impossibile. Anzi è indispensabile! La lotta spirituale apre alla speranza e a temperare uno sguardo coraggioso verso il futuro. Bisogna dire grazie al Papa che incoraggia i preti e anche i vescovi.

Noi vescovi sappiamo ciò che succede con i sacerdoti. Viviamo ogni giorno con loro; almeno io che ne ho solo sette in diocesi vivo a stretto contatto con loro. Nei due anni di episcopato accanto a loro ho imparato che non vanno assolutamente lasciati a se stessi, né tantomeno considerati come tappabuchi, pronti a risolvere solo problemi nelle parrocchie. I sacerdoti sono persone, con carne e ossa. E queste - la carne e le ossa - non vanno trascurate perché nell’atto consacratorio vengono offerte come cibo agli altri. E nessuno può donare ciò che non ha. Perciò la cura per i nostri sacerdoti è cura per la persona e per l’annuncio. È cura per la vita. Grazie, Papa Francesco, per questa lettera ai sacerdoti. E grazie anche perché non smetti mai di ricordare a noi vescovi di essere padri e pastori dei nostri preti.

(*) vescovo di Rrëshen e segretario generale della Conferenza episcopale albanese

 

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