Ci sono eventi, fatti, circostanze che segnano, determinano ed in alcuni casi influenzano le vite personali e private di ciascuno. Poi ci sono circostanze, fatti, eventi che riguardano la collettività ma che parimenti segnano le vite di tutti.
Sia negli uni che negli altri casi, il tempo e lo spazio sembrano dilatarsi e comprimersi al contempo. Sono trascorsi trentatré anni da quel 23 maggio 1992, data della strage di Capaci nella quale morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo ed il nostro conterraneo Antonio Montinaro. Sembra ieri, ma sembra anche sia trascorsa un’intera era geologica. Eventi come questo rappresentano una cicatrice che all’apparenza non ha possibilità di rimarginare l’integrità della parte di corpo che ha subito un determinato trauma. Ed invece, può rappresentare o il punto di non ritorno o il punto di partenza per un nuovo domani, per una nuova era, per un corpo rinnovato.
Di là di metafora, cosa si può aggiungere a ciò che è stato detto e scritto sulla eredità che hanno lasciato donne e uomini martiri caduti nell’adempimento del loro dovere di servitori dello Stato e, dunque, servitori di ciascuno?
Ci sarebbe da chiedersi come facessero quelle donne e quegli uomini a dormire le notti, ad affrontare le giornate, a continuare nel loro lavoro quotidiano, pur sapendo che rischiavano ogni momento la loro vita? La risposta non è facile che non fosse il sia pur per giusto e lodevole “senso del dovere”, comune peraltro a tante donne e uomini che quotidianamente nel silenzio adempiono ai loro di doveri al meglio delle loro possibilità.
Ma questa risposta non soddisfa. Sembra quasi un’autoassoluzione per chi avvertiva il bisogno da un lato di dare una risposta e dall’altro di rimanere comunque a distanza di sicurezza dal prendere impegni personali diretti. In altre parole, a molti bastava quasi vigliaccamente guardare a queste donne e uomini martiri come si guardano gli “eroi” dei cartoni animati, o dei telefilm o dei film; eccezionali, cioè, in quanto appunto eroi con poteri superiori a tutti.
Se, invece, ci si immagina di essere nei panni di Giovanni Falcone - per rimanere all’evento drammatico di cui ricorre l’anniversario -, si può pensare che egli fosse giunto ad un livello tale di comprensione dell’essere umano, da avere la certezza che il vero nemico da affrontare prima e sconfiggere poi non fosse questo o quel mafioso, ma il nemico invisibile e subdolo che si annida dentro ciascuno: vale a dire la paura!
In altre parole, Giovanni Falcone - ma lo stesso vale per i tanti altri martiri come lui - riusciva ad entrare nello sguardo, nell’anima e nel poco di cuore rimasto nell’uomo mafioso che aveva di fronte, intravedendo in lui, si, proprio ed anche in lui, lo stesso nemico che alberga in ognuno: la paura. Sì. Egli vedeva ciò che altri non scorgevano e continuano a non scorgere. Vedeva che anche l’uomo di mafia stava lottando contro la sua di paura, la paura che donne e uomini più forti e non più deboli di lui potessero impedire l’ascesa a suo dire infinita - ed invece fatua ed effimera - verso il potere assoluto. Falcone aveva compreso di avere innanzi a lui non un uomo forte e temibile, ma un uomo debole ed arrendevole; perché si era arreso di fronte alla propria paura. Nel momento stesso in cui i mandanti, gli uomini di mafia di primo o di secondo livello avevano deciso di far saltare in aria un intero tratto di autostrada, avevano perso quella loro battaglia contro quelle loro paure. Mentre Giovanni, al pari della moglie, dei tre uomini della scorta e di tante altre e tanti altri martiri, avevano ed hanno vinto la più dura delle battaglie che ogni essere umano è chiamato a combattere e vincere: quella contro ogni forma di paura! Ed oggi, oltre alle tante paure che nel quotidiano assillano, si è chiamati ad affrontare e superare molte altre paure create dall’uomo, da altri uomini, in genere solo apparentemente più forti o più potenti.
Ed ecco spiegato il significato delle parole che Giovanni Falcone disse poco prima di essere ammazzato: “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
Nel fare memoria oggi dei martiri caduti nella strage di Capaci, si può imparare a condurre e vincere la battaglia quotidiana contro la paura. E se non si riesce da soli, occorre non avere paura di chiedere aiuto. Così come non bisogna avere paura di dare aiuto a chi lo chiede. Perché, se si è uniti sarà più facile, più semplice e più bello sconfiggere le paure… proprio come avrebbero voluto i martiri di Capaci e tutti i martiri di ogni epoca, dinanzi ai quali tutti hanno il dovere di fare memoria con i fatti e non con vuote parole. È necessario essere nel quotidiano persone di coraggio e non di paura, persone che disinnescano paure ed alimentano coraggio, persone che infondono coraggio ed eliminano paure. Solo così coloro che hanno sacrificato la loro vita per il bene comune rimarranno vivi per sempre.
Perché il tritolo di Capaci e tutti gli strumenti di morte di ogni epoca non potranno mai ammazzare gli ideali ed il coraggio delle donne e degli uomini che hanno creduto ed ancora credono nell’ordinarietà della testimonianza.