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Per Moravia la felicità non esisterebbe: non sarebbe un oggetto o un fatto reale, da poter indicare, vedere, toccare. E non sarebbe neppure uno ‘stato’; tuttalpiù si tratterebbe di una figura simbolica, culturale. Questo, secondo Moravia, sarebbe confermato dal fatto che, quando ci troviamo davanti alla domanda ‘sei felice?’ tendiamo a rispondere non spontaneamente, ma utilizzando schemi e categorie largamente precostituiti.

Ma se l’autentica idea della felicità consiste nella proiezione verso un futuro di compimento delle nostre speranze, una prima conseguenza che ne deriva è che la condizione di felicità sia una cosa che fa bene; quindi, in questo senso, è una cosa buona. Un’altra conseguenza è l’intuizione che il male sia una deficienza d’essere, una infelicità dell’essere umano. Da questo ne deriva che chi è felice è buono, in quanto la felicità è l’origine stessa dell’agire bene.

Al contrario, l’opposto della felicità non è la tristezza, la sofferenza, il dolore o l’angoscia. Per De Monticelli il contrario è l’apatia, l’indifferenza, l’analgesia, l’aridità. L’infelicità è il non essere affettivo, il vuoto degli affetti e del senso personale in cui ci si sente vivi.

Ora, l’odierna mentalità edonista promette la felicità, senza riuscire a spiegare cosa sia; incita alla negazione della fatica e dell’impegno, appiattendo le potenzialità individuali. Conduce semplicemente alla banalità dell’agire umano, al quale non viene consentito di esprimere le differenze in un’ottica di valori assoluti. Soltanto il superamento di sé, invece, consente all’uomo di sviluppare le sue piene facoltà, elevando la soglia del valore umano della persona.

È felice, di conseguenza, chi riesce a realizzare la propria umanità, non da solo, ma con gli altri.

Secondo Pasquale Ionata se proviamo a ricordare quali sono stati nella vita i momenti di vera felicità, ci accorgiamo che sono stati quelli in cui abbiamo ‘dimenticato’ noi stessi per gli altri. 

La dimensione spirituale della vita psichica si può assimilare, senza dubbio, ad un’intensa esperienza di armonia, alla sensazione di una perfezione che si sviluppa nel desiderio di agire gentilmente e generosamente con gli altri.

Il tutto riconduce ad un’azione morale che affonda nelle sue radici religiose: riconoscimento di Dio come unica fonte di bontà e di felicità perfetta. “La risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo” trovano in Dio ‘la sorgente della felicità’” (Veritatis Splendor, 9, 30).

 

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