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Eutanasia e professione medica: due prospettive decisamente inconciliabili. A ribadirlo, ancora una volta, l’autorevolissima voce della World Medical Association (Wma), al termine della sua 70ª Assemblea generale, tenutasi a Tbilisi, in Georgia nei giorni scorsi.

In una dichiarazione conclusiva, infatti, mentre rinnova il proprio pieno impegno di fedeltà ai principi dell’etica medica e al rispetto per la vita umana, la Wma conferma di essere “fermamente contraria all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito”.

Una contrarietà che, senza ulteriori distinzioni, si applica a tutte le modalità di realizzazione di queste due drammatiche scelte eventuali. Nel testo, infatti, non è indicata alcuna differenza di valutazione etica tra modalità “attive” o “passive” d’intervento che abbiano la medesima finalità, ovvero il causare la morte anticipata del paziente (capace di intendere e volere), che ne abbia fatto personale richiesta volontaria. Stessa cosa vale per il suicidio medicalmente assistito.
Come conseguenza, la Wma ribadisce con forza che “nessun medico può essere costretto a partecipare ad atti di eutanasia o di suicidio assistito, né può essere obbligato a rimandare a questa possibilità decisionale”.

La Wma spiega infine che, in una prospettiva etica radicalmente differente, “il medico che rispetta il diritto fondamentale del paziente di rifiutare dei trattamenti medici non agisce immoralmente nel non somministrare o interrompere cure non volute, anche se il rispetto di questo desiderio comportasse la morte del paziente”.

Siamo dunque di fronte ad una decisa riconferma del fatto che i medici - e questa volta a livello mondiale - continuino a considerare del tutto “estraneo” alla loro missione professionale e, più in profondità, contraddittorio con essa ogni atto che abbia significato eutanasico.

L’arte medica, del resto, è nata come chiara missione di aiuto e sostegno alla vita umana, soprattutto nelle condizioni di malattia, sofferenza e fragilità. Come si può immaginare che un medico, che fin dall’inizio dell’esercizio della sua professione ha giurato - in continuità con i suoi colleghi lungo i secoli - di servire fedelmente la vita, soprattutto quando più bisognosa di cura, possa al contrario accettare un ruolo personale e sociale che lo trasforma in potenziale “datore di morte a comando”? Forse, la regolazione legislativa un giorno potrebbe anche sancire una simile assurdità. Mai, però, potrà accettarla la intrinseca finalità e la dignità stessa dell’agire medico, ben consapevole delle sue radici e in piena coerenza con esse!

 

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